venerdì 7 novembre 2008

Gli ultimi quindici anni di Botero (mostra)




BOTERO

Gli ultimi quindici anni

17 giugno – 25 settembre 2005

Roma, Palazzo di Venezia

Fernando Botero dimostra di non aver dimenticato le tele di alcuni grandi maestri del passato. I suoi omaggi sono trasversali, attraversano secoli e tendenze; i richiami al Gauguin tahitiano ne Due donne alla spiaggia, agli espressionisti, a Velazsquez o a Goya suoi conterranei, non sfuggiranno ai più.

I colori armonizzano i complementari espressionisti facendo loro la gaiezza delle tele che sempre ricordano la priorità concettuale del pittore: gli esseri umani: che siano ripresi nelle loro squallide (bordelli) o stereotipate esistenze (La vedova), l’umana simpatia boteriana occhieggia da ogni soggetto.

Botero va all’essenza di quel che vuol rappresentare; così, ne I bambini che giocano a football, ciò che contorna, fino ad invadere, anzi ad accerchiare, i soggetti, è il verde del campo di gioco. Nella memoria soggettistica di Botero siamo fermi agli anni ‘50-’60. Soggetti che appartengono al ricordo di quel che non è più.

Ritrae à sa façon, omaggiandoli, Ingres e Delacroix, Giacometti; non solo: il suo Cristo ricorda quello di Goya col sangue che cola come da spine invisibili, alla maniera di Grünewald. E poi ci sono le felci di Henri Rousseau (Il club del giardinaggio), la postura de Gli Ambasciatori di holbeniana memoria ne Il palazzo presidenziale, con anche un cagnolino alla Goya che rimanda al Velazsquez di Las meniñas.

Un’intera sala illustra la sua interpretazione dei fatti di Abu Ghraib: nelle tele imponenti, Botero rivisita Siqueiros con il verde morbosamente malato che fu di Andy Warrol. Il rosa suppliziato delle carni dei torturati tende già al sangue – nelle prigioni – e il rosso cardinalizio delle poche vesti dà lignaggio a corpi senza più dignità, né identità (non si vedono mai i volti, sacchetto di carta presente o non presente ad incappucciarne le teste).

Nelle sue nature morte dipinge gli oggetti secondo una personalissima reinterpretazione di Matisse (Natura morta con caffettiera), Van Gogh (Natura morta con sedia). Il celeste magrittiano – che già fu di Cézanne – invita e seduce da Il grande vaso. Anche le dimensioni e le sospensioni sono quelle dell’artista belga.

I carboncini risentono invece dell’allusione intertestuale a Morandi, anche se la frutta rappresentata rimanda ai sapori mediterranei della sua terra: le angurie, cipolle, arance e cetrioli che siano. Non manca nemmeno un accenno allo Chagall primoparigino (Natura morta con violino), dove l’effetto quasi annullato dall’assenza di blu a favore di una forte pervadenza della sanguigna (I ballerini), comunque rievoca la Parigi di Renoir, ma senza le altrui indulgenze, né stratificazioni sociali. Si è tutti nella miseria, infatti, tutti stretti, tutti insieme appassionatamente.

Ancora di sapore magrittiano-chagalliano è La donna che cade dal balcone, ove nella fissità dello spazio regolato e calibrato dall’onnipresente orologetto al polso della donna, il movimento verticale, e inesorabilmente votato alla caduta, rimane sospeso – come volo – come reale e in fondo giocoso absurdum.

Nell’ultima stanza, due pareti su quattro sono dedicate alle rivisitazioni di grandi opere classiche. Alcune più marcate (Piero della Francesca), altre meno accessibili (i pavimenti e le porte di Pieter de Hooch ne La monaca), ma anche Le Revenant di Gauguin e certi pittori spagnoli ormai dimenticati.

Alle pareti dedicate alla corrida e agli spazi agresti, luoghi apparentemente senza tempo, c’è qualche elemento (a volte solo uno) che àncora i soggetti nella realtà odierna (la sigaretta, l’uomo col cappello) a dimostrazione, forse, che la realtà ritratta è ricordo e che essa è ormai contaminata dall’oggi, se non per sempre perduta.

Jacqueline Spaccini

Roma, 11/08/2005

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