martedì 4 novembre 2008

Il Deserto dei Tartari di Dino Buzzati. Allegoria della vita




Il Deserto dei Tartari di Dino Buzzati. Allegoria della vita.

di Jacqueline Spaccini

_______________

Scritto nel 1939 e pubblicato nel 1940 [le immagini sono tratte dal film omonimo di Valerio Zurlini, 1976], in Eritrea ove svolgeva le funzioni di corrispondente per il Corriere della Sera, Il Deserto dei Tartari - che avrebbe dovuto intitolarsi La Fortezza - è ben più che un romanzo-capolavoro. È l'amara allegoria dell'esistenza umana.

La storia è semplice e piuttosto statica. Un giovane militare cui si prospetta una brillante carriera, e che risponde al nome di Giovanni Drogo, viene assegnato alla Fortezza Bastiani. Per farsi le ossa, come apprendistato; non dovrà soggiornarvi per molto tempo. La sua è una vita monotona, giacché nulla accade nella sua postazione (Buzzati rivelò che lo spunto del romanzo gli era stato offerto dalla monotonia della vita redazionale che conduceva, in cui tutto era millimetricamente prestabilito, secondo la scansione di un tempo cronometrato dalla città milanese in cui operava).

La Fortezza Bastiani - un tempo teatro di tragici avvenimenti - è l'ultimo avamposto settentrionale del Regno, la diga militare chiamata a fermare eventuali invasioni nemiche (e il mio pensiero corre al generale vandalo Stilicone - suocero dell'imperatore Onorio - che difenderà fino alla morte i confini del fiume Elba). Malgrado la delusione di essere assegnato ad un avamposto di seconda categoria, Drogo guarda al deserto - un tempo popolato di Tartari - come a un luogo da cui possa venire un cambiamento per il suo futuro ; non ha ancora l'occhio nostalgico del capitano Ortiz, che molto si è stupito di vedere un giovane tenente giungere lassù, senza espressa richiesta.

Ortiz (Max von Sydow) e Drogo (Jacques Perrin)
dal film omonimo di Valerio Zurlini (1976)


Non appena arrivato alla Fortezza, Giovanni Drogo vorrebbe tornare indietro. Ne parla al maggiore Matti.

(il magg. Matti, diventato Mattis - e impersonato da un affascinante
e credibile Giuliano Gemma - nel film di Zurlini)

Gli viene chiesto di pazientare, ché ben presto potrà avere l'agognato trasferimento. Giovanni è combattuto: da una parte, come militare è tenuto all'obbedienza (in fin dei conti è di prima nomina), dall'altra ha l'impressione di essere preso in trappola, di essere tenuto in ostaggio in un luogo che gli incupisce l'animo. Ha comunque fatto amicizia con Carlo Morel, giovane disinvolto e cordiale, che lo distrae dalla noia delle sterili e ripetitive operazioni militari di una caserma in disarmo.

le sterili esercitazioni militari all'interno della fortezza

Fa anche la conoscenza del sergente Tronk, che sembra attendersi una guerra da un momento all'altro e non smette di guardare l'orizzonte, verso settentrione, da dove dovrebbero provenire i fantomatici Tartari. E lui non si capacita, gli sembra tutto assurdo; vorrebbe esprimere in una lettera alla madre il suo disagio, ma poi altri pensieri lo prendono.

La vita alla Fortezza che sembra scorrere immutabilmente uguale a se stessa giorno dopo giorno, è vita? Nell'attesa dell'indomani, Giovanni Drogo si chiede se il tempo non abbia iniziato a correre senza di lui, o meglio, a fuggire da lui. Ma anticipo riflessioni che verranno dopo: è ancora giovane, Giovanni Drogo.
E attende.
Attende.



Intanto, strani personaggi si aggirano nella Fortezza. Come il sarto (maresciallo) Prosdocimo, il quale non garantisce sull'esecuzione di un mantello, convinto d'esser lì in via del tutto eccezionale, mentre son passati già 15 anni dal suo arrivo.

la fortezza Bastiani: Arg-è Bam (Iran)

Pare una malattia: nessuno abbandona la fortezza, attendendo l'evento che ormai non può più tardare: l'arrivo dei Tartari, che ristabilirà la fortuna e la gloria di ognuno. Un po' come per quei giocatori di carte che mentre perdono tutta la loro posta, rilanciano convinti che la situazione non potrà che migliorare...

Drogo scalpita: dopo 4 mesi, può andarsene. Un certificato medico attesterà che soffre di disturbi cardiaci, che è insofferente alle altitudini. Giovanni sta per abbandonare la Fortezza, il certificato è quasi pronto.
Poi.
Poi guarda dalla finestra. La vede e il suo sguardo cambia.


Non parte più. Non partirà più.


Jacques Perrin, l'insipido Giovanni Drogo del film

Anche per lui, il tempo pare essersi fermato (ma è un'illusione, il tempo avanza e corre, e porta via con sé i sogni di Giovanni Drogo insieme con la sua giovinezza).

Finché, un giorno, un puntolino nero e lontano si avvicina sempre più alla Fortezza. Nessuna creatura da anni si avvicinava, a parte i corvi e le bisce. Un cavallo, con tanto di sella.

Quel cavallo spezzava la regola, riportava le antiche leggende del nord, coi Tartari e le battaglie, riempiva della sua illogica presenza l'intero deserto.

Il cavallo era fuggito ai nemici? Chi l'accompagnava? Un soldato di guardia, chiamato "Moretto", lancia il suo chivalà. Gli risponde Lazzari - giovane recluta -, che chiede alla sentinella di aprirgli, ché ha preso il cavallo e non vuole farsi scoprire per non andare in gattabuia per punizione. La sentinella lancia il terzo chivalà; ha riconosciuto Lazzari, ma sente lo sguardo del sergente Tronk incollato addosso. Non vuole essere punito: perché diavolo Lazzari non si allontana? Lazzari non capisce: è nuovo, non crede alla ferrea applicazione delle regole militari. E quando lo capisce è troppo tardi.

Torna indietro fino a che sei in tempo; vuoi farti ammazzare?

Sono io, Lazzari! Non mi vedi? Moretto, o Moretto! Sono io! Ma che cosa fai con il fucile? Sei matto, Moretto?

E incespica nelle pietre, il povero Lazzari che capisce d'esser perduto; non si volta, grida, mentre la sentinella - spogliata dell'appellativo - torna ad essere una guardia che si sente ammonire dal sergente (Mira giusto!), anche se Tronk non ha detto nulla.

O Moretto, mi hai ammazzato!, le ultime parole di Lazzari.

Dopo 4 anni, vorrebbe ancora andarsene, ma non può: in troppi hanno chiesto il trasferimento, gli spiega il generale e tutto sommato, per Giovanni Drogo, la Fortezza è diventata una ridicola bicocca.

Il generale (Philippe Noiret)

Una volta torna in città, dopo che è morto l'amico Angustina (passaggio meraviglioso del libro). Sono trascorsi 15 anni: è ormai un estraneo. Non c'è posto per lui nemmeno là.

Allegoria della vita, della vita quando la si ripensa. Questa vita che è una lunga attesa di qualcosa che verrà e che poi non arriva. Perché il senso della vita è che non c'è senso. E allora l'unica cosa sensata che resta è quella di saper affrontare la vera esperienza. L'incognita signora.



Si trovò seduto su di una larga poltrona, in una camera da letto; ed era una sera
stupenda che lasciava entrare dalla finestra l'aria profumata. Drogo guardava atono il cielo che si faceva sempre più azzurro, le ombre violette del vallone, le creste ancora immerse nel sole. La Fortezza era lontana, non si scorgevano più nemmeno le suemontagne. [...]
Nel sommo del cielo, là dove l'azzurro si faceva profondo, brillarono tre o quattro stelle.
Drogo era solo nella camera,
l'attendente era sceso a bere un bicchiere, negli angoli e sotto i mobili si
accumulavano ombre sospette. Giovanni per un istante sembrò non resistere (nessuno in fin dei conti lo vedeva, nessuno lo avrebbe saputo al mondo), il
maggiore Drogo per un istante sentì che il duro carico dell'animo suo stava per rompere in pianto. Proprio allora dai fondi recessi uscì limpido e tremendo un nuovo pensiero: la morte. Gli parve che la fuga del tempo si fosse fermata, come per rotto incanto. Il vortice siera fatto negli ultimi tempi sempre più intenso, poi improvvisamente più nulla, il mondo ristagnava in una orizzontale apatia e gli orologi correvano inutilmente. Lastrada di Drogo era finita; eccolo ora sulla solitaria riva di un mare grigio e uniforme,e attorno né una casa né un albero né un uomo, tutto così da immemorabile tempo.

Dagli estremi confini egli sentiva avanzare su di sé un'ombra progressiva econcentrica, era forse questione di ore, forse di settimane o di mesi; ma anche i mesi e le settimane sono ben povera cosa quando ci separano dalla morte. La vita dunque si era risolta in una specie di scherzo, per un'orgogliosa scommessa tutto era stato perduto.

Fuori il cielo era diventato di un azzurro intenso, all'occidente tuttavia restava una striscia di luce, sopra i violetti profili delle montagne. E nella camera era entrato il buio, si distinguevano unicamente le sagome minacciose dei mobili, il biancore del
letto, la lucida sciabola di Drogo. Di là - capiva - egli non si sarebbe più mosso.

Avvolto così dalle tenebre, mentre di sotto continuavano le dolci canzoni fra gli arpeggi di una chitarra, Giovanni Drogo sentì allora nascere in sé una estrema speranza. Lui solo al mondo e malato, respinto dalla Fortezza come peso importuno, lui che era rimasto indietro a tutti, lui timido e debole, osava immaginare che tutto non fosse finito; perché forse era davvero giunta la sua grande occasione, la definitiva battaglia che poteva pagare l'intera vita.

Avanzava infatti contro Giovanni Drogo l'ultimo nemico. Non uomini simili a lui, tormentati come lui da desideri e
dolori, di carne da poter ferire, con facce da poter guardare, ma un essere onnipotente e maligno; non c'era da combattere sulla sommità delle mura, fra rombi e grida esaltanti, sotto un azzurro cielo di primavera, non amici al fianco la cui vista rianimi il cuore, non l'acre odore di polvere e fucilate, né promesse di gloria.

Tutto succederà nella stanza di una locanda ignota, al lume di una candela, nella più nuda solitudine.

Non si combatte per tornare coronati di fiori, in un mattino di sole, fra i sorrisi di giovani donne. Non c'è nessuno che guardi, nessuno che gli dirà bravo.

Oh, è una ben più dura battaglia di quella che lui un tempo sperava. Anche vecchi uomini di guerra preferirebbero non provare. Perché può essere bello morire all'aria libera, nel furore della mischia, col proprio corpo ancora giovane e sano, fra trionfali echi di tromba; più triste è certo morire di ferita, dopo lunghe pene, in un camerone d'ospedale; più melanconico ancora finire nel letto domestico, in mezzo ad affettuosi lamenti, luci fioche e bottiglie di medicine. Ma nulla è più difficile che morire in un paese estraneo ed ignoto, sul generico letto di una locanda, vecchi e imbruttiti, senza lasciare nessuno al mondo.

«Coraggio, Drogo, questa è l'ultima carta, va incontro alla morte da soldato e che la tua esistenza sbagliata almeno finisca bene. Vendicati finalmente della sorte, nessuno canterà le tue lodi, nessuno ti chiamerà eroe o alcunché di simile, ma proprio per questo vale la pena. Varca con piede fermo il limite dell'ombra, diritto come a una parata, e sorridi anche, se ci riesci. Dopo tutto la coscienza non è troppo pesante e Dio saprà perdonare.» Questo, Giovanni diceva a se stesso []

Fra poco dovrebbe levarsi la luna.

Farà in tempo, Drogo, a vederla o dovrà andarsene prima? La porta della camera palpita con uno scricchiolio leggero. Forse è un soffio di vento, un semplice risucchio d'aria di queste inquiete notti di primavera. Forse è invece lei che è entrata, con passo silenzioso, e adesso sta avvicinandosi alla poltrona di Drogo. Facendosi forza, Giovanni raddrizza un po' il busto, si assesta con una mano il colletto dell'uniforme, dà ancora uno sguardo fuori della finestra, una brevissima occhiata, per l'ultima sua porzione di stelle. Poi nel buio, benché nessuno lo veda, sorride.


Jacqueline Spaccini ©2009



________
Dino Buzzati, Il Deserto dei Tartari. Milano, Mondadori, 2001 (1940).

Nessun commento: