venerdì 7 novembre 2008

Il successo di Fred Vargas


Pensieri al volo
di Jacqueline Spaccini

Ne ho letti parecchi, di romanzi suoi. Non mi sono piaciuti tutti, ma riconosco che ha uno stile personale, la Vargas.

Prediligo i policiers che vedono come protagonista il commissario Jean-Baptiste Adamsberg e la saga dei suoi flics: Danglard, Justin, Retancourt, Noël, Voisinet, e perché no, il divisionnaire Brézillon. Chi non sopporto proprio, è Camille, la donna amata ma anche no, del nostro Adamsberg (cui ho sempre prestato i tratti di Jean-Hugues Anglade).

Ho visto pure i film, ma – a parte la ricerca dell’altezza (anzi, della bassezza) del commissario (Anglade, appunto, e José Garcia) e nel caso di Garcia anche la provenienza (è parigino, ma figlio di spagnoli - il commissario Adamsberg è originario dei Pirenei francesi) la fattura dei film lascia molto a desiderare. Neanche all’altezza di un buon sceneggiato televisivo.

Torniamo ai romanzi, allora. Perché piace così tanto, la scrittrice parigina che si firma con un nom de plume maschile preso in prestito da un film con Ava Gardner?

Innanzitutto, per la consistenza dei personaggi di secondo piano (cui si può imputare la loro eccessiva eccezionalità, lo straripamento dell’immagine da «santino» che l’autrice distribuisce a piene mani). C’è densità, ad ogni buon conto. E c’è contrapposizione, come sempre occorre in un buon policier tra il protagonista e la sua spalla. Come si staglierebbe dal fondale di scena uno Sherlock Holmes se non ci fosse un dott. Watson? Adamsberg è puro intuito, uomo insaisissable, impossibile à cerner, sfuggente, imprevedibile tanto quanto il suo capitano Adrien Danglard (anche qui due interpreti: meglio di Lucas Delvaux, secondo me - fisiodiegeticamente parlando - è Jacques Spiesser) è tutto logica, pesantezza, poco acume e razionalità prevedibilissima.

A mio avviso, tuttavia, uno dei motivi che attraggono le lettrici (e mi ci metto anch’io nel novero) di Fred Vargas è quel côté femminile che ha Jean-Baptiste Adamsberg. Ignoro la percentuale maschile del pubblico vargasiano, ma forse non sono lontana dal vero se dico che l’80% è costituito da donne.

Che cosa, dunque, questo commissario possiede di femminile (e qui bisognerebbe aprire una parentesi lunghissima su ciò che una donna ritiene femminile, rispetto all’idea che può farsene un uomo)?

Prendo – non troppo a caso – un passaggio tratto da Sous les vents de Neptune (2004, Sotto i venti di Nettuno), laddove il lieutenant Violette Retancourt muove - a mo’ di rimprovero al suo capo in crisi di identità - quanto segue (traduco):

«Ammiravo [in lei, commissario, n.d.r.]– come tutti – l’intuizione, ma non quel suo distacco che si accordava, non quel modo di disinteressarsi delle opinioni dei suoi sottoposti, ascoltandoli solo a metà. Non quell’isolamento noncurante, quell’indifferenza quasi impermeabile. Ma mi spiego male. Le dune del deserto sono cedevoli e morbida è la loro sabbia, ma per colui che l’attraversa, il deserto è arido.

L’uomo lo sa, che lo percorre ma che non può viverci. Il deserto non si concede.»

Poco femminile? Certo, se a leggere queste righe è un uomo. La donna è un’isola. Qui c’è scritto deserto. Ma la differenza è minima.

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Postilla: sceneggiatura e dialoghi del telefilm Sous les vents de Neptune sono di Emmanuel Carrère che conosco (per averlo intervistato) come bravo scrittore. Dovrò un po' rivedere il giudizio forse un po' severo.


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