domenica 30 novembre 2008

Insegnare italiano in Croazia


Insegnare italiano L2 in Croazia

di Jacqueline Spaccini

L’insegnamento dell’italiano nel mondo deve prendere in considerazione una serie di elementi dai quali non si può prescindere prima ancora di avviare ogni tipo di attività didattica. Vale a dire, qual è la lingua italiana da impartire, a quale pubblico, di che livello, in quale contesto nazionale, istituzionale e storico; chi è demandato a tale insegnamento: docente madrelingua e non, con quale formazione, etc. E questo perché è impossibile pensare di avviare l’insegnamento di un italiano «asessuato», sic et simpliciter, a rischio di compromettere il buon esito dell’impresa.

Primo elemento di riflessione: nel Paese straniero in cui viene insegnata, la lingua italiana è percepita come esotica o circola fluida, per la massiccia presenza di italofoni, se non addirittura come lingua veicolare tra i parlanti non nativi (come è quasi sempre il caso dell’inglese)? Nel caso che qui si intende proporre, la Croazia presenta due realtà profondamente diverse. Qualora l’insegnamento della lingua italiana fosse proposto nell’area istro-quarnerina o in Dalmazia (Zara, Spalato), si opererebbe in un territorio pressoché italofono (soprattutto per quel che è della zona istriana). Diversa cosa è proporre tale insegnamento nella regione della capitale, in cui l’inglese e il tedesco sono immediatamente percepiti come lingue sostitutive al croato nei confronti di allofoni in difficoltà. Storicamente, ma anche geograficamente parlando, i chilometri che separano il territorio polese, ad esempio, da quello zagabrese risultano essere incommensurabilmente più lunghi di quanto le carte stradali non attestino.

Secondo elemento da tenere in conto: a chi è destinato tale insegnamento? Qui, il ventaglio delle possibilità è quanto mai aperto, e per quanto riguarda la domanda (pubblico dei discenti, loro esigenze, loro livello di competenza sociolinguistica) e per quel che è dell’offerta (formazione e preparazione dei docenti, madrelingua e non). Infatti, le «variabili» che si presentano all’atto dell’insegnamento/apprendimento della lingua e della cultura italiana risentiranno giocoforza dell’interazione dinamica di tali componenti. Si ponga il (nostro) caso di un pubblico discente over 20, con un’attività lavorativa non correlata alla conoscenza/pratica della lingua italiana, di un pubblico cioè motivato all’apprendimento di detta lingua dal solo «piacere» (è la motivazione addotta nel 90% dei casi) di parlare una lingua bella fonologicamente parlando e dall’amore verso un Paese, l’Italia, facilmente raggiungibile, a non più di 300 km da casa. Tra l’altro, un Paese come il nostro, che sta incrementando i suoi rapporti economici con la Croazia, rende ancor più appetibile lo studio della lingua (recepita ormai come «lingua agognata, lingua di lusso»), anche alla luce dell’apertura sempre più imponente di sedi commerciali italiane sul territorio croato. Detto pubblico di lavoratori studenti mostra di riflesso una crescente curiosità nei confronti della cultura italiana, dal momento che ben presto la struttura della nostra lingua si rivela per gli autoctoni abbastanza semplice dal punto di vista morfosintattico e di nessuna seria difficoltà nell’apparato fonologico. Durante l’utilizzazione dei materiali didattici, il docente si renderà conto in poco tempo che dal punto di vista comunicativo i suoi studenti non hanno problemi di sorta nell’esprimersi, ch’essi capiscono facilmente la lingua verbale (notando finanche le sfumature di varietà regionale fonetica e lessicale insite nel parlare del docente madrelingua). Altra cosa è invero l’espressione scritta, in ragione dell’assenza: a. di geminate nella lingua d’origine, giacché i nativi croati sono «sordastri» quanto alle consonanti doppie (difficoltà ch’essi condividono con i francesi, e non solo, ad es.); b. di alcuni tempi verbali (seppur esistente, l’imperfetto non viene più impiegato a totale vantaggio del passato prossimo); c. del periodo ipotetico col suo temutissimo congiuntivo imperfetto; d. del corretto uso delle preposizioni, etc.

Per quanto concerne il terzo elemento di riflessione, vale a dire il ricevimento e la percezione della cultura italiana in senso esteso (e parlando sempre dei tempi odierni), sovente essa viene proposta e diffusa dall’Italia «di là dal mare», attraverso gli enti istituzionali italiani presenti sul territorio croato quali gli istituti di cultura che promuovono ogni forma di manifestazione culturale (incontri con scrittori, film, balletti, concerti, mostre d’arte, etc.). Trattandosi di cultura «alta», però, essa sfiora – senza toccare nel profondo – quel pubblico restio alle espressioni di acculturazione (anche nel suo significato spregiativo) intellettualmente elevata. Di più forte impatto è pertanto la cultura catodica, quotidianamente presente in Croazia, vuoi per l’elevata espansione del sistema satellitare e/o digitale, vuoi per la divulgazione di fiction italiane (una su tutte, «Un medico in famiglia», che tanto successo ha riscosso nei paesi transadriatici). Tutte le trasmissioni straniere sono diffuse nella lingua originale con sottotitoli in croato, sicché anche la ricezione «passiva» contribuisce all’inserimento di sonorità ed espressioni italiane, soprattutto tra utenti in giovane età. La conseguenza è che della cultura italiana passa per lo più la microrealtà sociale, familiare diciamo, mentre scarso interesse sembra destare l’attualità politica o, più estesamente, la realtà societaria.

È abbastanza evidente allora che l’intercettazione di fenomeni che compongono ed evidenziano la complessa essenza dell’italianità rischia di limitarsi alla semplice individuazione di manifestazioni episodiche, epifenomenali e contrastive sempre rapportate alla realtà croata e ricondotte all’esperienza di vita personale del discente allofono. Ed è qui, dunque, che l’apporto del docente di italiano preferibilmente, ma non necessariamente, madrelingua, si rivela nodale.

Al fine di evitare analisi e conclusioni che mettano in competizione le due culture (è migliore la mia, è peggiore la tua), con conseguente stigmatizzazione o - al contrario - esaltazione dell’altrui civiltà, il docente si premurerà di mettere l’accento su atti/fatti (di cronaca, di cultura, di amministrazione giuridica, ad es.) che invitino il gruppo di studenti stranieri a riflettere sui meccanismi che li hanno prodotti anziché a ricondurli «istintivamente» ai propri indici abituali di riferimento. Raccomandabile risulta essere l’uso delle pagine dei quotidiani/settimanali/mensili per quel che è della cultura italiana e dell’universo linguistico con le sue varietà regionali di un italiano in continua trasformazione (sia pure involutiva laddove esso perde il proprio patrimonio lessicale a vantaggio di una sempre maggiore anglicizzazione).

In tal modo, i discenti non si soffermeranno più su elementi denotativi di scarso rilievo e fortemente stereotipati (ad es.: gli italiani fanno le corna, utilizzano in modo selvaggio il clacson, sono oltremodo superstiziosi, non parlano bensì urlano, gesticolano troppo, etc.), bensì su altri aspetti dell’attuale realtà nostrana, quali: un’accresciuta consapevolezza dei diritti e doveri del cittadino, un interesse acuito nei confronti delle politiche sociali, una disponibilità al confronto per quel che è dei temi scottanti del vivere sociale indipendentemente dalle posizioni partitiche di appartenenza, etc. Ai discenti non verrà richiesto un giudizio, bensì un’analisi dei testi che comporti una riflessione personale e che coinvolga anche il loro individuale sistema di valori, ma nella prospettiva di un’eventuale messa in discussione degli stessi.

Se, nel caso che qui si sottopone, chi propone un tale approccio all’apprendimento della lingua italiana è (come è) una linguista di formazione, nel suo compito di trasferimento della cultura di appartenenza, non terrà in conto le sole componenti schematicamente morfosintattiche ma anche quella trasmissione di informazioni culturali che esse portano con sé, determinando (talora modificando) i contenuti di una lingua. Sia dato un esempio. La lingua croata prevede come pronomi allocutivi ti e vi (corrispettivi di tu e voi); come molte altre non contempla l’uso del lei. Quegli studenti che conoscono il tedesco, non avranno problemi ad usare la terza persona (singolare in italiano, plurale in tedesco, è vero, ma pur sempre 3a persona); più difficile risulterà per tutti gli altri. Allorquando essi avranno modo di assistere alla proiezione di un film italiano degli anni ’40, oppure straniero ma doppiato in italiano in quegli stessi anni, noteranno che il pronome allocutivo di cortesia è il voi. A questo punto, spiegare i meccanismi che portarono dal lei (introdotto nei primi anni del ‘500 su importazione spagnola, visto che il latino classico includeva il solo tu) al voi, nel solo periodo fascista, consentirà al docente di introdurre elementi culturali di un certo rilievo. E se poi aggiungerà che l’uso del voi sopravvive a tutt’oggi in alcuni ambienti rurali come espressione di deferenza alla persona cui è rivolto, e che talora esso è ancora osservabile nella corrispondenza commerciale, il docente oltrepasserà ancora un poco angusti confini meramente morfologici.

Poiché il trasferimento di una cultura non può – non deve – avvenire secondo un procedimento «tolemaico» (io ti do quest’informazione e tu supinamente la ricevi), dall’alto verso il basso insomma, l’insegnamento/apprendimento dell’italiano lingua straniera, prevedrà una terra di incontro, una sorta di no man’s land, ove una negoziazione linguistica sia accettabile, senza che quest’ultima snaturi la lingua di arrivo, cioè l’italiano. D’altronde, chiudersi nel proprio purismo sarebbe cosa inconcepibile, dal momento che la nostra lingua, oggetto di questa riflessione, non può considerarsi incontaminata, e che anzi la sua peculiarità è da sempre identificabile proprio nella duttilità ad accettare apporti linguistici di altrui provenienza. Non solo, ma appare evidente che un purismo serrato sarebbe comunque impraticabile nel caso di una lingua viva che non è dominante nella compagine mondiale, ma in continuo work in progress, quale quella italiana.

Che cosa può essere negoziato? Siano dati anche qui alcuni rapidi esempi. Si sa che l’ortoepia è argomento trascurato dalla maggior parte dei docenti di italiano, e non solo all’estero. Esistono parecchie concause che ne giustificano l’inosservanza: per essere insegnante non occorre aver seguito corsi di dizione, né aver affrontato esami di fonetica; molto spesso l’errata dizione non modifica – tranne rarissime eccezioni, a tutti note – il significato di una parola; l’italiano standard è raramente usato dai parlanti nativi, che si avvalgono dell’italiano nella sua varietà regionale. Pertanto, si potrà accettare l’errata dizione di alcune parole, quali vàluto per valùto, guàina per guaìna, léttera per lèttera, svélto per svèlto, trènta per trénta, etc. (negoziazione tanto più accordabile in quanto gli stessi nativi italiani ne ignorano spesso la ortoepia). Morfologicamente parlando, sarà ammissibile far passare insieme a invece del corretto insieme con, l’ausiliare avere per il verbi meteorologici [ha piovuto invece di è piovuto, etc.], invalso ormai anche nella narrativa (sgrammaticata) italiana. Nella sintassi, per quanto si faccia, i discenti croatofoni mantengono un impiego ragionato e non introiettato del congiuntivo[2]. Pertanto, il docente potrà accogliere l’uso dell’indicativo (presente/imperfetto) nelle oggettive dipendenti da un verbo dichiarativo, ad es. penso che hai ragione, credevo che venivi (come avviene d’altronde nell’italiano familiare). E’ evidente che inaccettabili resteranno produzioni linguistiche quali, ad es., la mia madre // ho andato // vengo da Croazia // penso andare // la medico, etc.

La vitalità di una lingua, per essere tale, fa ginnastica nella palestra di tutti i campi (istituzionali e non) e di tutto si nutre. Oggidì, come s’è avuto modo di accennare, essa passa soprattutto attraverso i media. L’italiano politico-amministrativo è ostico ai più e semmai fa «colore» all’estero cadendo ben presto nel dimenticatoio linguistico, tranne in un caso: all’epoca dei processi contro la corruzione politica di tangentopoli, l’espressione mani pulite fu subito traslata in altre lingue (lingue diverse, stessi problemi). Purtroppo, l’italiano scientifico non dà apporto alcuno, visto che i maggiori risultati in tale ambito provengono più spesso dalla sola area anglofona. È vero che un soffio di vitalità è ultimamente riscontrabile nell’ambito commerciale (almeno qui in Croazia) per i motivi più sopra addotti, tant’è che si assiste a una crescente domanda di corsi di italiano tecnico-commerciale. Al momento, dunque, quel che dà vitalità alla lingua e cultura italiana in territorio croato è la musica pop (le canzoni di Eros Ramazzotti come quelle più vecchie di Toto Cotugno), insieme con la letteratura giovanile (cioè diretta ai giovani, se si considera il successo commerciale di autori come Susanna Tamaro, Niccolò Ammaniti) e la produzione filmica (sia essa televisiva o cinematografica).

L’ammirazione e l’amore del pubblico croato nei confronti della nostra lingua così come una maggiore attenzione da parte degli organismi istituzionali nell’approccio, offerta e diffusione potranno incrementarne lo studio e la pratica dell’italiano, tenendo costantemente in giusto conto l’accanita concorrenza delle altre lingue straniere impartite sul territorio. [Jacqueline Spaccini]

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Pubblicato da Dialogica (Rovereto), anno III, 2006, n. 5/6, pp. 63-65



[1] Il congiuntivo non c'e' in nessuna lingua slava. Ma ciò che esprime il congiuntivo italiano le lingue slave e anche il croato lo possono esprimere con altri mezzi. Nei casi dove il cong. in it. esprime dubbio, insicurezza ecc. si può usare un avverbio, ma il verbo e' sempre all'indicativo. Nelle ipotetiche irreali si usa laddove in italiano ricorre il congiuntivo il futuro anteriore (Futur drugi, ossia secondo) e in certi casi il condizionale presente o passato.

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