sabato 8 novembre 2008

Intervista a Emmanuel Carrère (2001)


A confronto con Emmanuel Carrère


di Jacqueline Spaccini


Quarantaquattro anni portati con una nonchalance da fare invidia, studi di Sciences-Po e di Storia (“senza convinzione, era tanto per fare qualcosa”), critico cinematografico all’inizio (sua un’illuminante monografia su Werner Herzog), sceneggiatore in seguito (“il mio vero mestiere; insomma, quello che mi dà da vivere”), Emmanuel Carrère è stato pubblicato a partire dal 1982 (L’amie du jaguar, Bravura [Marcos y Marcos], Fuori tiro [Theoria], un saggio-romanzo sulla biografia immaginaria di Philip K. Dick, Io sono vivo e voi siete morti [Theoria]) e ricompensato con vari premi, dal Prix Passion al Prix Vocation (“piccoli successi di critica, attestazioni di stima”) …



D: Sei anni fa, lei ha ottenuto il Prix Femina. L’anno scorso c’è stato l’immenso successo, di critica e di pubblico, de L’avversario (Einaudi). Apparentemente, sembra che il suo percorso di scrittore non abbia incontrato nessuno degli ostacoli da cui si dicono afflitti oggi gli autori…

R. Sì, oppure – per restare nella metafora – diciamo che nella mia navigazione a vista, non sono stati fino ad oggi individuati scogli insormontabili e, comunque, esterni. Quando mi succede di non avere un argomento che mi incoraggi a scrivere per un lungo periodo, non entro in crisi: continuo il mio lavoro di sceneggiatore, aspettando. So di essere uno scrittore, ma non mi sveglio di certo con questo primo pensiero, al mattino. D’altronde, sono un autore molto poco lineare, piuttosto discontinuo, ma poi rapido.



D: In che senso?

R. Nel senso che magari ho un’idea che sedimenta dentro per anni, poi arriva il giorno in cui avviene il déclic e scrivo tutto in sei settimane, come è stato per Baffi (Bompiani) e per La settimana bianca (Einaudi) … Per La settimana bianca, ad esempio, avevo solo l’idea-base: raccontare la storia di un bambino che scopre di avere un padre criminale e per giunta pedofilo. Ma nessun punto di partenza. Di questa storia non ho saputo davvero null’altro per almeno due anni.


D: Parliamo un po’ dei protagonisti di questi due romanzi. In Baffi, il protagonista (che non ha nemmeno un nome) decide dopo dieci anni di tagliarsi i baffi, ma nessuno se ne accorge; anzi, nessuno s’è mai accorto che li portasse, i baffi. Piano piano, inesorabilmente, la sua stessa identità verrà messa in discussione. Con follia e colpo di scena finale. Senza volerlo svelare ai lettori, basterà dire che esso è raccapricciante per i sensi. Per temi e situazioni, mi ha ricordato il protagonista di Uno, nessuno e centomila di Pirandello, Vitangelo Moscarda…

R. All’epoca in cui uscì questo romanzo, qualcuno tirò fuori addirittura Kafka. Non conosco bene Kafka né Pirandello. Beninteso, questo tipo di confronti mi lusingano, ma gli effettivi punti di partenza sono molto più banali. Succede che un pomeriggio si parte per la campagna, pensando di scrivere una novella. Poi, giorno dopo giorno, la cosa cresce e, senza idea alcuna di quel che si scriverà l’indomani, ci si corica chiedendosi dove si voglia arrivare con questa storia…



D: D’accordo, ma la follia e quel finale terribile… Insomma, l’intertestualità può essere anche inconscia. Ad ogni buon conto, l’idea di fondo è che l’identità sono gli altri a darcela attraverso il loro sguardo oppure no?

R. L’identità! Punto di vista suggestivo… Rischio di deluderla, però. Le faccio un esempio: mi sono accorto che il protagonista non aveva ancora un nome solo ai due terzi della stesura del romanzo. Mi è sembrato indicativo; a quel punto, ho continuato deliberatamente il gioco. Semmai, io volevo porre l’accento sulla reciprocità della sconnessione mentale: può anche essere il mondo attorno a noi a perdere la testa, no? Quanto al finale, indubbiamente, non lo volevo chiuso e scontato (sul tipo: un mattino il protagonista si rende conto che si è trattato solo di un brutto sogno). Ma poi ognuno legge la storia con la sua lente e ci vede quel che vuole. Diciamo che il finale sopra le righe è stato un modo personale di dimostrare la mia inclinazione di sempre per le storie di science-fiction. E, naturalmente, che tutto nella vita è indecidibile.


D: Poi c’è Nicolas, il ragazzino turbato de La settimana bianca… Un romanzo che, converrà, non ha avuto solo un successo di critica, e che le valse il prestigioso Prix Femina…

R. Quando il romanzo uscì, ne furono vendute appena seicento copie. Alcuni mesi dopo, sull’onda del premio, le vendite salirono, e di molto. Vede, io sono fin troppo lieto che sia andata così, eppure continuo a credere che i miei veri lettori siano quei primi seicento.


D: Nel 1998 ne è stato tratto un film (La Classe de neige) che la vide impegnato nella veste di sceneggiatore insieme col regista. In Francia, l’accoglienza della critica cinematografica è stata controversa, a volte dura; inoltre, la visione del film è stata vietata ai minori di dodici anni. I Cahiers du Cinéma sostennero che il regista Claude Miller aveva perduto l’occasione di farne un vero film dell’horror (alla maniera di Shining), a vantaggio dello scavo meramente psicologico della storia…

R. Ognuno è libero di pensarla come vuole, ma quella di Nicolas non è un’horror-story, semmai è la storia di un orrore. Questo bambino di dieci anni, che parte per le consuete vacanze d’inverno delle scuole francesi, si sente diverso dagli altri fanciulli. Fin dall’inizio, lo vediamo avere dei grossi problemi di socializzazione, pur essendo un ragazzino come gli altri, forse ancor più dotato. A differenza dei suoi compagni, che viaggiano sul pullman scolastico, per esempio, lui è costretto a percorrere quattrocento chilometri in macchina con un padre iperapprensivo e angosciato dalla prospettiva di eventuali incidenti stradali. Durante il soggiorno sulle Alpi, si verificherà il rapimento prima, il ritrovamento poi, di un fanciullo. Ucciso da un maniaco.

Solo verso la fine del racconto, si scoprirà che il mostro è il padre di Nicolas. Ma non è questo il punto, cioè il protagonista non è il padre e la storia raccapricciante della pedofilia. Tant’è che non ne ho fatto materia di narrazione. Quel che conta è l’universo immaginifico di Nicolas, un bambino dalla fantasia morbosa e già turbata. Quale sarà il suo avvenire?



Nicolas (Clément van der Bergh)


D: Lei e Miller, avrete dovuto fare i conti anche con l’impatto emotivo che tale argomento avrebbe provocato sugli spettatori.

R. Necessariamente. Il libro fu scritto prima dell’affare Dutroux. Dopo i fatti del Belgio, si è molto più attenti a casi che – purtroppo – esistevano anche prima (il mio racconto nasceva da un reale fatto di cronaca), ma senza l’eco che i media hanno in seguito – e giustamente – evidenziato. Ad esempio, quando si è trattato di scritturare l’interprete di Patrick, il maestro di sci che ha un rapporto positivo e quasi paterno con Nicolas, siamo stati attentissimi a che l’attore non avesse fattezze o atteggiamenti ambigui. Credo che il film, o meglio, il soggetto proposto, abbia risentito negativamente del contesto sociale. Sono padre anch’io e posso capire, ma ribadisco che il tema del film, così come del libro, non era questo.


D: Poi c’è stato, ancora, un altro caso, un’altra storia raccapricciante, l’affaire Romand, oggetto del suo ultimo romanzo. Ci racconta com’è andata?

R. Tutto nacque da un transfert negativo e dalla circostanza che all’epoca dei fatti (9 gennaio 1993) mio figlio Gabriel aveva cinque anni, la stessa età di Antoine, il figlio ucciso da Romand. L’ho scritto nella prima pagina de L’Avversario. Mi sentii, logicamente, coinvolto in prima persona.


D: Reazione legittima, la sua; sarà capitato lo stesso anche ad altri padri, anche scrittori. Ma solo lei ha pensato di scrivere un romanzo su questa storia. Immagino si sarà domandato perché.

R. In realtà, la parola romanzo non compare sotto il titolo. E’ vero che mi sono molte volte chiesto perché proprio io sentivo di dover scrivere sulla tragedia che vide un uomo apparentemente tranquillo prendere la decisione di sterminare la sua famiglia: la moglie e i due figlioletti che amava, in una notte di inizio anno; prendere l’auto per recarsi nella regione del Giura, fino alla casa degli anziani genitori, uccidendoli; prendere l’aereo per Parigi e tentare di uccidere la sua ex-amante; provare infine a uccidere se stesso dopo aver dato fuoco alla sua casa. Me lo sono chiesto, ponendomi un quesito morale anche e soprattutto nei confronti dei miei figli che, da grandi, avrebbero letto i libri del padre. Provavo di fronte ai miei figli paura e vergogna di scrivere di queste cose. Dovevo rifuggirne o assecondare la mia vocazione particolare di tentare di comprendere l’aberrazione, l’orrore, ancora una volta?


D: Ma qual è la sua posizione in tutto ciò? Un romanzo per essere tale non può ridursi a una mera cronaca. Difficile è una collocazione equidistante; in una tale situazione, l’equilibrio è talmente delicato, che si rischia sempre di precipitare da una parte o dall’altra. Rimanere neutri, mi sembra una strategia impossibile. Lei, poi, ha avuto una lunga corrispondenza con l’assassino: lo ha cercato, gli ha parlato…

R. Cercavo il mio posto di fronte a questa storia. All’epoca del processo Romand, una collega giornalista mi rimproverò di aver contribuito a legittimare la follia omicida di Romand: scrivendo un libro su di lui, davo corpo ai suoi sogni (irrealizzati) di megalomania. Romand aveva finto per diciotto anni della sua vita di essere medico, anzi, a capo della ricerca medica nell’Organizzazione Mondiale della Sanità a Ginevra, di avere una grande disponibilità di denaro, di contare su amicizie influenti come Bernard Kouchner o Brigitte Bardot, rivelando ai suoi familiari di avere un cancro (inventato) quando si sentiva minacciato dalla verità, e cioè che aveva ingannato tutti e che li aveva anche raggirati pecuniariamente, spendendo tutti i risparmi che gli erano stati affidati e che lui avrebbe dovuto curare. Tutto per riparare a una bugia veniale detta in giovanissima età. Una bugia che s’è portato appresso per tutta la vita e che lo ho spinto a sterminare tutti i suoi cari pur di non deluderli… Nella realtà, un uomo che ha passato diciotto anni a vagare per le aree delle stazioni di servizio, a camminare nel folto dei boschi, a leggere; sempre in solitudine. Confesso di aver provato una compassione cristiana di fronte al mistero di uomo intelligente la cui follia omicida era un amalgama fatto di cecità, inettitudine e codardia.


D: In una delle sue lettere dalla prigione da cui, nonostante l’ergastolo, uscirà presumibilmente nel 2015, a sessantuno anni, l’assassino le scrive di pensare spesso a una frase di Paul Claudel: “Le temps est le sens de la vie” (il tempo è il senso della vita). A me, una frase così, ha fatto ricordare un passaggio del Deserto dei Tartari, quando Giovanni Drogo, pensando al tempo che passa inesorabilmente, pensa che la vita passa col tempo, e il senso è tutto lì. Per un laico, una frase del genere non è di molto conforto. Tutt’altro. Lei come ha inteso la frase di Claudel in bocca all’Avversario, traduzione dell’ebraico “Shatan”, Satana, l’avversario di Dio?

R. Jean-Claude Romand, l’assassino, è – per quanto paradossale possa sembrare – un credente praticante ed io ritengo che in realtà egli sia un dannato. Perché dannato è colui che non si è trovato, non si è riconosciuto. Cresciuto all’ombra delle sue menzogne, non saprà forse mai dov’è la parte autentica di sé. Anche perché nessuno ha visto, riconosciuto, cercato in lui quell’autenticità che ognuno di noi nasconde dentro gli anfratti dell’anima. E allora il mio libro può essere letto o come un delitto o come una preghiera.



D: Passiamo infine alla sua scrittura, o se vuole, a questioni di stile. La lingua di cui lei si serve è semplice, spoglia, scarna, senza per questo essere ordinaria o scorretta. Ho l’impressione che oggetto della sua attenzione sia la continua limatura, a favore di un terminologia e una sintassi più frustre. Come se a lei non interessasse dimostrare di saper scrivere “bene”.

R. È vero. Sono stato tuttavia affetto dalla sindrome del virtuosismo, all’inizio della mia carriera, se di carriera si tratta. Ma ho abbandonato subito quella strada, in primo luogo perché non mi appartiene; e poi perché generalmente scrivo di seguito e senza piani prestabiliti. Quel che conta veramente per me è il ritmo, anzi, “la corrente elettrica” che passa dalla prima all’ultima riga di quel che scrivo. Peraltro non mi sottraggo al fascino dei maestri della lingua: Tolstoi e Proust sono gli scrittori che più ammiro e che considero fari luminosi della letteratura mondiale. E se posso esprimere un augurio per me stesso, il giorno in cui passerò alla narrazione in prima persona, mi piacerebbe scrivere come Montaigne, mio immaginario e immarcescibile compagno di strada.


Intervista e traduzione in italiano

a cura di Jacqueline Spaccini

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Intervista pubblicata da Stilos (La Sicilia) con il titolo: Emmanuel Carrère/Narro incubi sociali e pongo quesiti morali il 29/05/2001

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