martedì 4 novembre 2008

La Grecia secondo Pier Paolo Pasolini, Pasolini secondo Massimo Fusillo

Massimo Fusillo. La Grecia secondo Pasolini. Mito e cinema.
Roma, Carocci, 2007.

Non nuovo allo studio della Grecia antica, Massimo Fusillo torna alla classicità greca analizzandola sotto la duplice lente del mito nel cinema. L’opera filmica è quella – pasoliniana – dell’Edipo Re (1967), di Medea (1970) con uno sguardo attento alla versione pasoliniana dell’Orestea teatrale di Gassman (1960).

In verità, seppur l’autore proponga un aggiornamento dei suoi tre saggi più significativi, pubblicati oltre dieci anni fa, non si creda che il tempo abbia scalfito la brillantezza delle sue osservazioni : la «giustezza» del suo scrivere è tale che il lettore può a pieno titolo gustare le pagine come fossero appena uscite dalla penna di Fusillo.

I due saggi dedicati al cinema «barbarico» di Pasolini son preceduti da una lunga introduzione, la quale si incarica di riassumere il senso del passaggio dal Pasolini scrittore al Pasolini cineasta ; una sorta di «conversione», la sua : «all’inizio il cinema fu soprattutto un mezzo per trascrivere con una tecnica nuova il mondo dei romanzi romani».

Non già per fare del regionalismo coatto ; al contrario, la tecnica cinematografica che prevede una lingua non verbale (e per ciò stesso non esclusivamente italiana) permette a Pasolini di fare dell’arte transnazionale. Non il Tevere malandrino di Ragazzi di vita, né le borgate romane di Accattone : più ancora che il sottoproletariato urbano, è il mondo contadino – osserva Fusillo – il luogo perduto e perciò rimpianto dallo scrittore regista. Nel cinema, Pasolini ha a cuore la nettezza di ciò che è «immediato, primitivo, primigenio».

Diviso tra istinto e didattica, il regista realizza due film che sono a metà strada tra il sogno e il documentario ; la sua peculiarità tecnica non dimentica la lezione dei Dreyer, Rossellini o Chaplin : il suo è un cinema volutamente spoglio, povero, essenziale. Pasolini affida al volto umano e all’inquadratura frontale una carica ieratica : gli sguardi di Silvana Mangano fissi sulla camera che la ritrae non sono inferiori a certi primi piani di bergmaniana memoria. E che il suo sia un neo-neorealismo – come lo definisce Fusillo – lo prova anche l’ostinata risoluzione di avvalersi di attori non professionisti (ad eccezione dei protagonisti), nonché l’ambientazione delle storie filmiche in luoghi desertici, cristallizzati, quasi surreali.

E allora anche la Grecia messa in scena da Pasolini non è quella levigata del periodo classico (troppo spesso ridotta a una sorta di parodia nei film di peplum), bensì quella barbarica di cui non si ha memoria e che al lettore/spettatore evocherà più facilmente alcune comunità dell’Africa arcaica.

Quella di Pasolini è dunque una riscrittura delle due tragedie ; il suo macrotesto tuttavia non è un’opera postmoderna, come ve ne sono un po’ ovunque, giacché è assente in lui ogni intenzione consapevolmente ironica. Fusillo osserva che c’è uno scarto ossimorico tra la messa in scena della tragedia a teatro e quella al cinema : la prima è affidata al dominio della parola mentre la seconda è pre-razionale e per ciò stesso pre-verbale. Pochissimi sono i dialoghi nei due film, anche se spesso forte è la presenza della parola scritta (in Edipo Re) ad esprimere il pensiero dei protagonisti, in una sorta di estremo omaggio al cinema muto.

Il Mito non appartiene alla sfera del razionale, bensì a quella del mistero ; in esso non c’è intellettualismo e la parola è come interdetta. L’Edipo cinematografico di Pasolini è antintellettuale e non solo, spiega Fusillo : l’interesse del regista è piuttosto spostato sull’antagonismo padre-figlio in chiave chiaramente (e dichiaratamente) autobiografica, mettendo in secondo piano il rapporto figlio-madre, quasi che l’incesto con Giocasta fosse qualcosa di più «naturale» (se la società è barbarica, il tabù pur essendo forte, è più spesso violato).



È colpevole, è innocente, Edipo ? Antica quaestio che annovera Pasolini tra gli innocentisti ; così scrive Fusillo, anche se tale convinzione fatica a reggere dinanzi allo schermo. A nostro avviso, cioè, per essere innocente l’Edipo pasoliniano dovrebbe semplicemente non sapere (e non sa perché non ha visto) ; in realtà, egli non vuole più ricordare quel che ha visto. Ci riferiamo alla scena in cui lo spettatore capisce che Edipo sta barando, ben sapendo d’esser proprio lui l’assassino di suo padre. Vediamola da vicino.

Il giovane Edipo, avvertito del terribile destino che lo attende, decide di non tornare a casa (Corinto) e sceglie di recarsi a Tebe. Lungo la strada, ad un crocevia, incontra un anziano, a bordo di un carro, accompagnato da un servo e scortato da quattro soldati. L’uomo è arrogante, chiede ad Edipo, che apostrofa straccione, di farsi da parte e cedergli il passo (scena che ricorderà quella del Lodovico manzoniano prima di farsi frate). Dopo aver rifiutato, Edipo scaglia una pietra contro uno dei soldati e urlando di rabbia fugge. Una volta eliminati i guerrieri che lo inseguivano, il giovane torna al crocevia, come in preda ad una furia sanguinaria. Nel frattempo, il vecchio arrogante si è alzato in piedi ed Edipo vede ch’egli si mette un copricapo sulla testa, una sorta di corona, dinanzi alla quale, il giovane scoppia a ridere. Ciò non gli impedisce di uccidere il vecchio (Laio) e mentre il servo scappa (sarà il testimone), guarda fissamente il volto di colui che ha trucidato. Tutto ciò non sarebbe poi così importante se non ritrovassimo, in una scena successiva, quello stesso copricapo - la strana corona - in testa ad Edipo e proprio nell’atto di chiedere che venga ricercato e condannato l’assassino di Laio.

Passando a gesti e oggetti assurti a metafora da decrittare, l’Edipo ne presenta alcuni (procedimento simbolico assente in Medea) sui quali Pasolini insiste come a volerne rimarcare l’importanza. Si pensi alle mani con le quali Edipo si nasconde il volto fin da bebè quando vuole ritrarsi dalla della violenza altrui, rifiutandosi di vederla. O ancora, alla mano ch’egli si morde ogniqualvolta è in preda ad «una pulsione angosciosa», scrive Fusillo, come exemplum di un codice del corpo, quel linguaggio non verbale, di cui «il Pasolini antropologo [ha] chiara coscienza». L’autore del libro rimanda anche alla valenza dello sguardo (non diegetico) dei protagonisti nella camera, soprattutto nelle scene di sesso, «quasi a sottolineare il voyeurismo dello spettatore (che poi è una caratteristica sempre latente nel pubblico cinematografico)», una sorta di trasposizione dello sguardo che la tahitiana di Aha ohe feii ? rivolge a colui che osserva il quadro di Gauguin. A nostro avviso, più facilmente lo sguardo rivolto alla camera può esser letto come l’espressione neanche tanto nascosta di un narcisismo ingenuamente strafottente da buttare in faccia allo spettatore. Quanto agli oggetti, la spilla di Giocasta è senz’altro quello più rappresentativo di una simbologia tutta giocata sulle due tematiche attorno alle quali girano le tragedie greche pasoliniana : eros e thanatòs, l’istinto sessuale e la morte. La spilla della moglie-madre è quella che trattiene le sue vesti e nasconde la di lei nudità. Togliere la spilla dalle vesti di Giocasta equivale a usare la chiave che apre l’accesso al suo corpo, inteso come intimità. E di quella stessa spilla si servirà Edipo per accecarsi, definitivamente, abbandonando la metafora, e diventare per davvero cieco : non a caso, infatti, la scena finale vede Edipo, ormai cieco, suonare il flauto in una modernissima Bologna.

In conclusione, l’Edipo pasoliniano rifiuta di vedere poiché la vista dà la conoscenza e la conoscenza appartiene alla sfera del sapere e dunque della ragione, dell’odierno, secondo Fusillo. Ciò che è razionale è il contrario di ciò che è «arcaico, mitico e misterioso», centro di ogni interesse per stessa ammissione di Pasolini in una delle tante interviste fattegli.

In Medea tutto è meno cinematograficamente tecnico ; qui, la simbologia è, semmai, nella messa in scena dei due personaggi antagonisti : Medea a illustrare il mondo della sacralità arcaica mitica e misteriosa (ma anche passionale, crudele e utopica) e Giasone a rappresentare il mondo della razionalità pragmatica, borghese e calcolatrice. La rottura tra i due non è esplicabile con il disamore di Giasone nei confronti di Medea, bensì è da rintracciare nell’inconciliabilità dei loro due universi. Pasolini è arrivato a gridare quel che poteva sembrare ancora realizzabile qualche anno prima (l’utopica sintesi ch’egli aveva intravisto nell’Orestea teatrale scritta nel 1960) : «Niente è più possibile, ormai», dirà Medea; vale a dire : la parola non salva, il dialogo non è possibile.

Pasolini è a suo modo un espressionista : se infatti la sua novità, osserva Fusillo, «è la convinzione che il cinema, proprio perché arte giovane, […] possa […] giungere al mistero ontologico delle cose», ecco che in Medea il significato delle cose lo si coglie attraverso il personaggio interpretato da Laurent Terzieff, il Centauro Chitone ; per meglio dire, attraverso la visione del suo corpo.

Nel prologo, costui dispensa la sua Weltanschauung a un Giasone dapprima bambinello, poi adolescente e infine giovanotto. Ebbene, se dapprima egli gli dice che «tutto è santo» e che «niente, nella natura, è naturale», terminerà l’ultimo suo proposito con un lapidario «non c’è nessun dio».

Perché ? Dov’è la verità ? Secondo noi, lo spettatore si accorge (sia pure ad una seconda visione) che è il pensiero di Giasone ad echeggiare nella bocca del Centauro e non quello del Centauro stesso, sebbene le inquadrature non siano in soggettiva. Il nostro punto di vista diventa visibile (e condivisibile) se si osserva attentamente la figura del centauro : quando lo vediamo per la prima volta è mezzo uomo e mezzo cavallo ; nel prosieguo della sua lunga allocuzione, al Giasone tredicenne è dato ancora immaginare ch’egli sia come lo aveva conosciuto, ma noi – gli spettatori – vediamo che la parte equina è nascosta tra il fogliame delle siepi ed è soltanto il torace nudo a darci l’impressione che sia ancora Centauro. Ma quando Giasone è ormai adulto, ecco che Chirone non soltanto è interamente uomo e interamente vestito, ma addirittura egli dice che la realtà nel mito, inteso da Pasolini come esperienza concreta, è cosa lontana, che la ragione è divina (seppur fallace) e che non esiste nessun dio ; in ultima istanza, nulla è sacro. In dieci minuti di monologo, il mondo di Giasone si è trasformato da arcaico in moderno.

Tutto il contrario dell’universo della donna. Nel mondo di Medea, regola è ciò che è barbarico (beninteso, agli occhi di un’altra civiltà dominante), onirico, rituale, misterico, magico. In una parola : arcaico. L’incontro tra l’uomo e la sacerdotessa è piuttosto la storia dello scontro tra ciò che è antico e ciò che è moderno e della loro inconciliabilità. Tra Giasone e Medea in realtà non esiste amore, la donna non si innamora del giovane tessalo ; ella è attratta dal suo corpo (ricordiamo che Pasolini scelse un atleta di fama mondiale, il lunghista Giuseppe Gentile, per rappresentare l’eroe greco). È l’eros che tutto muove e sommuove.

In Pasolini come nei classici greci, eros e thanatòs, inteso come morte ma soprattutto come (auto)distruzione, vanno insieme. E dunque la lunga sequela di morte e distruzione investe dapprima il giovane Apsirto, poi Glauce e suo padre Creonte, infine i figli stessi di Medea e Giasone. Al pari del Sole, il Fuoco regna su tutto. Più che negli altri, l’ellissi è la tecnica narrativa che Pasolini utilizza in questo film : non vengono rappresentati gli atti cruenti e nemmeno si allude ad essi (se si astrae dal doppio suicidio di Glauce e di Creonte che si gettono dall’alto di una torre, ma che la macchina da presa ritrae lontanissimi), se non nella scena del sacrificio umano, giacché l’espressionismo pasoliniano passa attraverso i colori e gli sguardi, non attraverso l’esibizione dello spargimento di sangue.

Paradossalmente, lo spettatore prende coscienza dell’atto doppiamente infanticida proprio davanti all’amorevole immagine materna di una Medea che lava e accarezza i suoi figli. Infine, non sul suicidio di Giasone si chiude il film, bensì sulla netta separazione dei due mondi, col fuoco a dividere i due protagonisti : «perché cerchi di passare attraverso il fuoco – urla Medea a Giasone disperato per i figli morti – non potrai farlo ; è inutile tentare !». Quando l’inconciliabilità dei due mondi è acclarata, e il dialogo è vano, echeggia come pietra tombale l’ultima invettiva di Medea : «È inutile ; niente è più possibile ormai».

L’ultimo saggio di Massimo Fusillo è incentrato sull’Orestea di Eschilo che nel 1959 Gassman chiese a Pasolini di tradurre. Più di ogni altra analisi, qui è estremamente interessante la riflessione che l’autore del libro porta sulla traduzione. Diciassette pagine sono dedicate alla riabilitazione della versione pasoliniana contro le accuse di plagio e di incompetenza che all’epoca mossero grecisti più o meno noti (Degani, su tutti). In realtà, Pasolini rese pubblici i suoi debiti filologici fin da subito, nella Lettera (o Nota) del Traduttore. Quel che Fusillo tiene tuttavia a mettere in risalto (appoggiandosi a testi che hanno fatto la storia delle teorie traduttive) è che un poeta non può tradurre come un traduttore qualsiasi. Translation as Creation, scrive, prendendo in prestito le parole di Louis G. Kelly ; «il traduttore di poesia deve rinunciare nella maggior parte dei casi a riprodurre gli effetti espressivi dell’originale (soprattutto quelli fonici), ma può cercare di compensare la perdita creandone parallelamente di nuovi ; d’altronde anche Jakobson sosteneva che non ci può essere vera traduzione di poesia, ma solo “trasposizione creativa”».

Tornando al rapporto tra mito e cinema e sul mondo greco restituito ossimoricamente nella sua barbaricità, concluderemo con le parole di Fusillo, dicendo che per Pasolini il tema del mito greco trova proprio nel cinema la sua massima estrinsecazione, giacché in esso si attua quella «ricerca di un linguaggio che potesse cogliere il mistero ontologico del reale, quel mistero che, a differenza dell’enigma, non può essere decodificato dalla ragione».

Saint-Cloud, 9 feb. 2008

Jacqueline Spaccini

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pubblicato da
Italies, n. 12 Université de Provence, 2008
e da

Italianistica, Pisa-Roma, n. 2 maggio-agosto 2008, pp. 206-210


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