lunedì 3 novembre 2008

La misura delle cose di Eduardo Rebulla

Dattiloscritto inviato all'autore del libro sottostante


Eduardo Rebulla. La misura delle cose. Palermo, Sellerio, 2008.

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La misura delle cose

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Immaginiamo che una storia ce la racconti un coro. Non sarà difficile, leggendo un romanzo di Rebulla, giacché la narrazione a più voci è procedimento caro all’autore: il punto di vista di ognuno offrirà nuove sfaccettature della storia in actu.

Sopra a tutti c’è un direttore d’orchestra, un osservatore che sicut Deus ha l’ultima parola, doppelgänger dell’autore. Indemocraticamente, costui spazzerà via tutte le suggestioni e le impressioni che il lettore ha acquisito strada facendo. Tant’è che quest’ultimo scorre via con gli occhi i sentimenti dei personaggi attendendo lo sguardo verbale del narratore, depositario della verità interpretativa.

L’autore intende suggerire – e da subito – che la materia di cui tratta la sua opera è una tragedia contemporanea (da una parte il dibattito attorno al diritto del malato all’eutanasia, dall’altra la questione falsamente moderna del terrorismo, fantasma orrifico di una guerra di pochi portata contro i molti ignari e innocenti), ma che nasce da una tragedia antica, quella della Tebaide. Perlomeno per quel che è dei due protagonisti del romanzo.

Antigone, che si vorrebbe Tea, e Nick, che non ha mai smesso di essere Polinice, richiamano alla memoria una parte non troppo nota della mitologia greca. Nel mito, Antigone seppelliva il cadavere del fratello Polinice, ucciso a tradimento dal fratello Eteocle (qui, dalla sclerosi laterale), per poi morire poco dopo ella stessa, murata viva (tuttavia, è una Tebaide più alferiana che classica, quella di Rebulla).

L’amore fraterno/sororale tra Nick e Tea appare per quasi tutto il romanzo più forte di quello sentimentale tra Tea/Julio e Nick/Diana, forse perché la muerte ha a che fare col sangre (anche nel senso di legame consanguineo) ben più che con l’amore, nella concezione dell’autore.

E dunque la ricerca di Tea da parte di Julio così come il sottrarsi di Diana dinanzi alla partenza/dipartita di Nick, fanno da intermezzo, da sfondo, alla narrazione più profonda che a nostro avviso non è poi – per davvero – nemmeno la morte, bensì la ricerca di sé.

La morte funge da stimolo, da casus belli.

Quasi tutti i personaggi di questo romanzo vivono infatti in un’assenza di sé, anzi in una continua assenza da sé. Questo viaggio incontro alla morte è in realtà una circumnavigazione attorno al perimetro nascosto della propria identità.

C’è? E se esiste, qual è? E dove cercarla? Nei luoghi (via dei Transiti, Cies, Stoccolma, Lindos)? Nella rinascita della vita, come quel giardino che la nascente Tea vorrà riportare allo stato longe ante cioè com’era prima della morte del suo curatore, quando ancora Nick non era malato?

Ma un passaporto per l’identità, lo si può ottenere per procura?

Il coro parla e canta, geme e soffre, ma quando lo fa non è mai polifonico (eccezion fatta per la scena – l’atto – dell’incontro tra Paco e Marirosa). In generale, nel romanzo non trova posto la sincronia; ognuno ha da pensare a sé; ognuno arriva da qualche parte (che sia un luogo geografico oppure uno stato di consapevolezza) troppo presto o troppo tardi rispetto agli altri. Oppure non arriva proprio.

Nunzio è cristallizzato nel suo ruolo, in posizione di stallo. Nunzio (nomen omen) è il Messaggero puntuale. E com’è nella sua funzione, è latore di messaggi (pensiamo a quei biglietti di commiato ch’egli infila nelle tasche dell’abito funebre dell’amico amato – sospettosamente troppo amato). Torna alla mente l’angelo with flageolet di Burne-Jones.

Nunzio-Kleenex assiste e porge la sua spalla; alle volte, suscita diffidenza. Bisogna fidarsi di lui? Chi è per davvero e che cosa vuole? Era per davvero amico di Nick/Polinice, era il suo souffre-douleur, servitore ignaro di un manipolatore o non piuttosto scaltro manipolatore a sua volta? Nunzio parla poco e ascolta molto; sa tutto (tranne – paradossalmente – la cosa più importante per quel che sarebbe della sua professione). È insomma come quei “contorni” indispensabili di “pietanze” magari belle a vedersi, ma leggère nella loro consistenza, cui egli dà lo spessore di cui sono deficitari.

Diana, da farfalla rientra nel bozzolo, nel vano tentativo di farsi nuovamente bruco. Al principio, l’autore sembra parco di attenzioni nei suoi confronti, ma poi sono sufficienti tre frasi (tre pennellate) per restituircela nella sua compatta discrezione, nel suo riserbo di vestale regale, nella sua affabile freddezza, se ci si passa l’apparente ossimoro. Il suo distacco non è indifferenza, quanto piuttosto amorevole assistenza: come la vestale custodisce il fuoco, Diana resta a vegliare Nick/Polinice fintanto che la sua anima è viva.

Corinne è in continua evoluzione, facendosi tutt’uno con lo slancio vitale che la contraddistingue, che le nega una determinazione intera e concreta. Ha opinioni, Corinne? No, si appoggia agli altri. Li segue, li ammira, si affida. È giovane e dolce come quel Cassis che non è solo il nome della sua città, ma anche il frutto (di bosco) zuccherino che la simbolizza. Tuttavia, immaginiamo che nel tempo il frutto si farà robusto liquore.

Paco è il personaggio che tutti lega; è il tramite, il filo di rame. È attivo e positivo; è la giovane speranza, la risposta fiduciosa allo scoramento rassegnato. È attento: guarda gli altri e li capisce, senza mai farsi invadente, come conviene ad un giovane a modo. La speranza è discreta, non fa tanto casino.

Julius cresce lungo tutto il romanzo. Esce dal bozzolo (segue un itinerario inverso rispetto a Diana) e muovendosi in cerca di Tea, in una nuova e modernissima telemachia, va verso gli altri, e così facendo, verso il mondo, maturando una consapevolezza di sé che la ricercata solitudine gli aveva negata.

Tea, ecco, lei è il corifeo muto. Pensa molto, ma gira in tondo. Perché lei c’è poco in questa storia, intenta com’è a non cercarsi, nell’impegno costante a non volersi (ri)trovare.

È la diletta/eletta amata dall’autore, il quale le attribuisce una matura complessità ben superiore alle sue forze: la giovane età le impedisce infatti di affrontare dilemmi esistenziali – non si parla qui dei ragionamenti sull’eutanasia sì/eutanasia no: quelle sono problematiche difficilmente risolvibili –, labirinti mentali dai quali non è facile uscire, neppure quando si possiede una montagna d’esperienza di vita.

Leggere i pensieri della giovane è come entrare con un trapano dentro un pozzo nero, un pozzo che ci attira perché l’eco della disperazione alligna anche dentro di noi, che sordi ci siamo fatti per sopravvivere.

Se Tea prenderà forse il sopravvento (ma ne siamo poi sicuri?), Antigone è di già ridotta a un ologramma.

Il protagonista maschile, invece – e paradossalmente – è concretissimo, malgrado la quasi totale assenza di corpo. Sia pur ridotto alla sopravvivenza grazie ai macchinari dell’ospedale svedese, nel romanzo, lui, è tutto corpo. A dire il vero, qui l’ologramma è Nick, del quale nulla ci interessa – per volere dell’autore prima e del narratore poi –.

È Polinice il protagonista, secondo le regole narrative. Lo è anche quando non c’è più. Lo è, recuperato nel suo simbolico giardino. Lo è quando è in coma sull’aereo, lo è quando poco prima di morire, avverte l’acqua che scivola sul corpo che fu e che gli (soprav)vive nella mente.

Secondo le nuove regole (che poi non sono nuove, basti pensare agli apologhi), il vero protagonista è l’occhio che tutto osserva, come s’è detto, e che fa muovere anche il lettore nel senso di direzione ch’egli vuole. Lui, il regista. Lui, il narratore.

Conosciamo suo fratello minore; lo incontrammo in Segni di fuoco. Ma era ancora discreto. Qui è splendidamente sfacciato: il se taille la part du lion.

Abbiamo ascoltato un coro che narra una, anzi più vicende, intrecciando storie di ordinaria quotidianità con eventi storico-sociali travagliati. Ma di già a metà del romanzo ci troviamo dentro a un film. I movimenti stessi dei personaggi, ce ne danno conto: essi scivolano, ondeggiano, ondulano. Il narratore/regista ci propone una scena dopo l’altra. Talvolta ricorre alla pittura (trionfa l’immagine morte/guerra, come sempre la Morte è il grande Convitato di Pietra alla mensa di Rebulla); spesso alla natura.

Non è più però quella empatica di Carte celesti, solo in parte la natura pacificatrice di Linea di terra, non più quella crudele di Segni di fuoco; non è indifferente come in Sogni d’acqua, nemmeno è la natura malinconica di Stati di sospensione: è Domina. La natura non asseconda più: s’è ripresa i suoi diritti.

In La misura delle cose il paradosso si fa realtà: chi non vuole la morte e la trova, a chi la cerca viene negata; in una vicenda narrata con impegno civico e disperazione laica e stile elevato, concetti come morte destino perdita e assenza si rincorrono e l’epilogo ci ricorda quello di Le invasioni barbariche e di Bleu, blanc, rouge.

Potremo almeno per un poco dimenticare il dies irae, divisi tra l’insensatezza dell’umano esistere e l’irragionevole speranza che vi sia un altrove?


Jacqueline Spaccini

Caen, 2/10/2006

(leggendo il manoscritto)




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