sabato 8 novembre 2008

Le (Ri)flessioni di un traduttore

Traducendo Vesna Parun...
di Jacqueline Spaccini

Mi diceva qualche tempo fa il grande poeta Izet Sarajlić: «Quando traduci un verso, ricordalo, cinque parole debbono essere del poeta, due del traduttore».
Le due parole del traduttore sono, in genere, delle aggiunte; sono zeppe che servono a riempire un vuoto, a colmare il ritmo claudicante della lingua di arrivo. Paroline superflue, da un punto di vista strettamente semantico, eppure indispensabili ai fini di quello stilistico.
Di certo, tradurre non è mai una scommessa vinta a priori e sono convinta che non conti davvero se la persona che si appresta a tale compito abbia una cultura profonda o conosca perfettamente la lingua dalla quale traduce (quella in cui traduce, invece, sì). Quel che conta è allora che questa persona abbia una competenza non meramente linguistica, bensì squisitamente poetica. Indubbiamente.
Ma basta? Certo, il poeta Orelli ha tradotto in modo sublime il poeta Mallarmé e Calvino ha reso palese giustizia all’ars poetica (e un po’ beffarda) di Queneau. Ma se Leopardi è considerato un poeta minore in Francia è anche per colpa dei suoi traduttori, molti dei quali poeti. Un po’ di modestia da parte dei traduttori, si dirà. Si facciano da parte, reprimano il proprio, frustrato, io poetico.
In fondo, non siamo tutti concordi con l’umanista Leonardo Bruni quando affermava che l’essenza stessa della traduzione consiste nel riportare correttamente in una lingua ciò che si trova scritto in un’altra?
Il problema, semmai, sarebbe quello di metterci d'accordo su che cosa si intenda per correttamente. Che cosa è corretto: riprodurre fedelmente il testo, quasi una parafrasi ai confini con la prosa (come sembra andar di moda ultimamente)? Al rogo i traditori? La solita solfa sulla brutta fedele e la bella infedele con quel che segue…?
Personalmente, sono per la fedeltà musicale anche a costo di sconvolgere l’altrui sintassi e di sacrificare una parte del lessico. Ma quale fedeltà musicale, quale ritmo, quale spirito? Non indiscriminatamente fedele. Non necessariamente infedele per le lingue romanze.
Di sicuro, nessuna ottusa fedeltà a livello di metrica: immaginate un endecasillabo italiano parimenti reso in francese. Il lettore transalpino sentirà che manca qualcosa (una sillaba!), perché il verso abbia un ritmo. Pignoleria per pignoleria, meglio allora trasformare l’endecasillabo in dodecasillabo. E viceversa per i versi francesi in italiano.
Ma se i versi in questione fossero in serbocroato (e credo che il discorso che segue potrebbe estendersi a tutte le lingue slave)?
E’ appunto il caso che intendo sottoporre ai lettori, la maggioranza dei quali immagino insensibili al fascino della musicalità di tale lingua.
Di già basterebbe il numero di consonanti improvvidamente e abbondantemente accostate le une alle altre in attesa di una vocale liberatoria, nonché il germoglio di segni diacritici ad accompagnare sibilanti e palatali, a far desistere da qualsivoglia decrittazione. A colui poi che ascoltasse questa lingua per la prima volta in vita sua, verrebbe forse in mente di trovarsi nei pressi di un bosco estivo invaso dalle cicale…
Ma, ammesso e non concesso che qualcuno vi spiegasse quali suggestioni evoca tanta sonorità, non credo che servirebbe a granché, se non ad accrescere in voi un sentimento dell’esotico.
Pertanto, il traduttore non si voterà a riprodurre tali suoni. Ma se è vero che qualcosa si perde, è altrettanto vero che qualcosa deve pur essere restituito. Non il suono, bensì ciò che quel suono, col suo ritmo, suggeriva.
E dunque il traduttore si impegnerà a stimolare nei lettori della lingua d’arrivo le medesime sensazioni. O perlomeno, vi si proverà.
L’esempio che ho scelto, Zašto je umro slon (Perché morì l’elefante), fa parte della produzione poetica di Vesna Parun autrice dalmata, un tempo si sarebbe detto jugoslava ed oggi serbocroata, se non addirittura – per ragioni politiche – solo croata.
Ad occhio nudo si constaterà che la sua è una poesia composta di strofe irregolari, a rima alternata (ABA/CDC/DEDFF, e così via) ed assonanze interne (queste ultime determinate dal fatto che detta lingua è, come il latino ed il tedesco, basata sulle declinazioni e i casi).
Si tratta di una poesia allegorica, o più semplicemente simbolica, in cui la triste storia del servizievole elefante e delle opportuniste formiche sta a rappresentare le umane relazioni, con quel che ne consegue, allorquando i rapporti sociali sono squilibrati e non prendono in conto la realtà oggettiva degli istinti naturali. Una poesia, insomma, che ricorda le favole di Esopo, di Fedro e – d’ipotesto in ipertesto – quelle di La Fontaine.
Prendiamo la strofa iniziale nelle due versioni:

U šumi eukaliptusa živio dobričina slon

svakome spreman da pomogne,
al mravima posebno sklon.
Žao mu bilo gledati ih, onako malene, kako se muče
i kako s golemim trudom svaki
slamčicu svoju uz brijeg vuče.
Zato je šumom gustom oprezno koračao
pazeć da slučajno ne bi
nogom na mravinjak stao,
ili da ne bi u žurbi veselom nekom mravu
nožicu zgnječio ne hoteć il – ne daj bože – glavu!

Nella foresta di eucalipti quieto viveva un elefante,
a chiunque pronto a dar soccorso,
e verso le formiche particolarmente ben disposto.
Spiacevagli veder l’affanno che si davan le piccoline,
e con quanta fatica le pagliuzze trascinavano dalle colline.
Pertanto, avanzava nella folta foresta,
assennatamente, e con la vista lesta
a non porre imprudentemente un arto
su di un formicaio, o nella fretta
a schiacciar di graziosa formica la zampetta
né – dio non voglia – incauto, il capo!
Dal punto di vista della rima, ho decisamente optato per quella baciata (soccorso/disposto; piccoline/colline; foresta/lesta; fretta/zampetta), con ripresa di rima interna (assennatamente/ prudentemente) o di assonanza/rima immediatamente anticipata all’interno dello stesso verso (incauto/capo; vista/lesta).
Il tono favolistico moraleggiante ho cercato di renderlo facendo appello a: tournures leziose o infantileggianti, tipiche delle filastrocche (di graziosa formica, piccoline); uso di arcaismi o di apocopi (spiacevagli veder, affanno) al posto di costruzioni più correnti quali žao mu bilo gledati ih = “gli dispiaceva vedere” (tradotto: spiacevagli) oppure kako se muče = “come si affaticavano” (tradotto: l’affanno che si davano), etc. Agli effetti della rima o del ritmo, alcuni singolari sono diventati plurali, una parte di verso è finito nella riga successiva e viceversa.
Altra è la versione che un adepto dell’assoluta fedeltà letterale avrebbe proposto. La do di seguito:
Nella foresta di eucalipti viveva tranquillo un elefante
pronto ad aiutare chiunque,
ma propenso in particolare alle formiche.
Gli dispiaceva vedere, quelle piccole, come si industriavano
e come con fatica immensa ogni
loro pagliuzza dalla collina trascinavano.
Perciò avanzava nella fitta foresta,
con cautela, attento a non
mettere una zampa su di un formicaio,
oppure nella fretta a qualche aggraziata formica
una zampetta non schiacciare casualmente, o – dio non voglia – la testa!
Altro elemento ineffabile, ma che doveva passare, era l’ironia impertinente della lirica.
Nell’originale, essa era così stilisticamente resa:
Mi ćemo slamčice vući
i mrvice, i zrnje, i obilno te hraniti.
Ta tvoji smo prijatelji, i dužnici štoviše!
Psst! – prekinu ga ostali mravi – tiše!…
Dobričina slon umire: zaklopio je oči
i, po svemu sudeći, ne čuje nas više!…
E nella mia traduzione:
Trasporteremo noi le pagliuzze, noi formicuzze
e a vagonetti ti nutriremo di granetti.
Siamo tuoi amici no, anzi, siam tue debitrici!
- Sshh! - l’interruppero le altre formiche - Taci!
L’elefante sereno sta morendo: orsù,
ha chiuso gli occhi e – suppergiù – non ci ascolta più!
Allo stesso modo di Vesna Parun, anch’io sono ricorsa ai vezzeggiativi, che, messi in bocca ad una formica opportunista, all’ironia aggiungono un sapore di ridicola comicità (pagliuzze/formicuzze; vagonetti/granetti); ho giocato sulla universalità della parola amici per autorizzarmi la rima (consequenzialmente sbagliata) di debitrici, tutte e due rafforzate da Taci!; ho introdotto una zeppa (orsù), per accelerare la caduta di po svemu sudeći (letteralmente, “a conti fatti”) e di ćuje nas više (“non ci ascolta più”), ottenendo in tal guisa una tripla rima in italiano (orsù, suppergiù, più), che mi consentiva di recuperare quelle di tiše, oči, sudeći e više del testo originale.

Non sono una sostenitrice della traduzione poetica in versi rimati. Tutt’altro. In questo caso, però, il ricorso alla rima non rispondeva ad una esigenza meramente ornamentale (e per ciò stesso, soggettivissima), bensì alla necessità di favorire l’evocazione sonora del testo originale, cui ho fatto riferimento più sopra. Se vi sia riuscita oppure no, non sta a me dirlo.
Vorrei mi fosse infine concesso di concludere non concludendo – così come è la pratica della traduzione –, che per essere una scienza lo è alla maniera sperimentale, più prossima all’alchimia che alla chimica. O perlomeno piace a me considerarla tale, sempre suscettibile di miglioramento, work in progress.

L’esatto contrario di questo articolo, quando verrà letto. Cioè, troppo tardi per qualunque ritocco.
[Jacqueline Spaccini]

*
Versione originale

Zašto je umro slon

(Vesna Parun)

U šumi eukaliptusa živio dobričina slon

svakome spreman da pomogne,
al mravima posebno sklon.
Žao mu bilo gledati ih, onako malene, kako se muče
i kako s golemim trudom svaki
slamčicu svoju uz brijeg vuče.
Zato je šumom gustom oprezno koračao
pazeć da slučajno ne bi
nogom na mravinjak stao,
ili da ne bi u žurbi veselom nekom mravu
nožicu zgnječio ne hoteć, il – ne daj bože – glavu!
Gledao je slon kud gazi, da ne može bolje.
Al sigurno je sigurno.
I mravi dobričinu zamole
neka hoda što manje, pod drvetom nek stoji
nepomičan, dakako, i – ako je moguće –
samo na jednoj nozi, pa bilo mu hladno il vruće.
A ako mu je dosadno – slamčice može da broji,
to je prilično zabavno; a oni, sa svoje strane
oduûit će mu se – netom prilika bude za to!
I tako na jednoj nozi poživje dobričina slon
godinu dana i više, i vecma izgladnje on.
Niti je jeo nit pio, a i spavao je kojekako –
dobričina biti, hm, nije: uvijek baš lako.
Već su mu i rebra provirila ispod kože!
Najzad i mravi uvide da tako više ne moûe
i da će stari slon od gladi naprosto umrijeti.
Tada se jedan mrav iz pristojnosti sjeti
i slonu predloži:
Samo ti, starkeljo, lezi!
Ništa se ne boj. U naš dom,
na žalost, ti ne možeš ući;
al nije lijepo da se sad pravimo Englezi
i da te samog ostavimo!
Mi ćemo slamčice vući
i mrvice, i zrnje, i obilno te hraniti.
Ta tvoji smo prijatelji, i dužnici štoviše!
Psst! – prekinu ga ostali mravi – tiše!…
Dobričina slon umire: zaklopio je oči
i, po svemu sudeći, ne čuje nas više!…
I mravi se, da ne dangube, uokolo razmiliše
za svojim svagdašnjim poslom,
iskreno ucviljeni,
i još su dugo, dugo zdravi bili i živi.
Zapravo, ako razmislimo, oni i nisu krivi
što su tako sitni, te su i usluge njihove
takoćer tako neznatne, da ne mogu golemom slonu
uzvratiti jednakom mjerom.
Slon ima surlu i kljove,
i jak je i mudar; al treba dobro da otvori oči
kad bira prijatelje, da baš ne izabere onu
najmanju pasminu mravlju, kojoj je od postanka
mjera za ovaj svijet
i za ljubav – sićušma slamka!
*
Versione italiana

Perché morì l’elefante

Nella foresta di eucalipti quieto viveva un elefante,
a chiunque pronto a dar soccorso,
e verso le formiche particolarmente ben disposto.
Spiacevagli veder l’affanno che si davan le piccoline,
e con quanta fatica le pagliuzze trascinavano dalle colline.
Pertanto, avanzava nella folta foresta,
assennatamente, e con la vista lesta
a non porre imprudentemente un arto
su di un formicaio, o nella fretta
a schiacciar di graziosa formica la zampetta
né – dio non voglia – incauto, il capo!
E meglio che poté, l’elefante verso il guado guardò.
Questo è poco, ma certo.
E le formiche il pacato elefante pregarono
di restar fermo sotto un albero, a mo’ di sentiero meno erto,
e se possibile solo su una zampa, con la pioggia e il bel tempo.
Se si fosse seccato, le pagliuzze contasse: un divertimento;
per loro conto, al momento dato, il debito avrebbero saldato.
Così su di una sola zampa visse calmo l’animale per anni e più,
avvertendo però una gran fame. Senza bere né mangiare,
e dormendo in modo invero poco abile
da mite ragionare, eh, non sempre è così facile.
Ormai le costole trasparivano dalla pelle
anche le formiche, quelle, capirono di non poter seguitare:
il vecchio elefante di fame morto sarebbe a lungo andare.
Una formica allora si ricordò delle buone pose
e al pachiderma propose:
Ma coricati, dunque, vecchietto!
Di nulla non temere. Ahimè, sotto il di noi tetto
non puoi entrare; ma certo non sarebbe molto aggraziato
se ora facessimo gli Inglesi, lasciandoti solo e abbandonato.
Trasporteremo noi le pagliuzze, noi formicuzze
e a vagonetti ti nutriremo di granetti.
Siamo tuoi amici no, anzi, siam tue debitrici!
- Sshh! - l’interruppero le altre formiche - Taci!
L’elefante sereno sta morendo: orsù,
ha chiuso gli occhi e – suppergiù – non ci ascolta più!
E le formiche, per non perder tempo,
alla comune vita lavorativa ripensarono un momento:
restarono a lungo vive e vispe
ma sinceramente meste.
Invero, a ben pensare, bisogna esser malevoli
se perché piccole vogliamo farne colpevoli,
i loro servigi furono di così poca grandezza
che all’elefante in egual misura non resero la stazza.
Egli possedeva proboscide e zanna,
forza e assennatezza,
ma nella scelta degli amici
gli occhi occorre tenere vigili,
ché nella razza degli insetti per colpa forse della taglia
il mondo come l’amor –
non son più grandi di un fil di paglia.
(traduzione dal serbocroato di Jacqueline Spaccini)
Pubblicato da: Traduttologia, rivista di traduzione e interpretariato, Vasto, Rendina Editori, Anno II n°5 2000, pp. 77-86.
(1) Vesna Parun è nata in una piccola isola antistante Spalato nel 1922. Iscrivendosi nel solco di Ana Achmatova e di Marina Cvetaieva, è considerata la più grande poetessa croata vivente. Autrice di numerose raccolte poetiche, nonché di testi teatrali, conosce un esilio interno da molti anni, a causa del suo mancato allineamento alle direttive del passato regime tudjmaniano. Ai tempi della Resistenza, ha combattuto al fianco dei partigiani del maresciallo Tito; in seguito, si distaccherà da alcuni aspetti della politica titoista, incappando nella censura e cadendo nell’oblio e la clandestinità editoriale. La sua poesia è canto, musicalità di suoni ed immagini. In quella grande cornice che è la natura, trovano posto infelici storie d’amore, in cui un io femminile si rivolge ad un tu maschile, maledetto e rimpianto al tempo stesso. Ho proposto una scelta di 37 poesie che attraversano tutta la creazione di Vesna Parun in Né sogno né cigno, Caserta, Spring Edizioni, 1999, pp.60 (Prefazione di Predrag Matvejević. Traduzione dal serbocroato e nota critica di Jacqueline Spaccini).

4 commenti:

Anonimo ha detto...

bellissima poesia

Julien ha detto...

mi scusi per gli errori che seguono ma sono francese.
Per quanto riguardano le riflessioni, prof, concordo con Lei, cioé di non fare un copincollato, una trasposizione sistematica, meccanica delle parole e della sintassi. Dapprima, non è possibile a volte oppure non significherebbe assolutamente nulla. Quindi l'essenziale è che almeno il testo di arrivo sia corretto dal punto di vista grammatica. Poi il testo letto, il lettore non deve, a parer mio, lasciar trasparire la lingua di partenza. In realtà, qualcuno che sarebbe neutro dovrebbe perfino poter dire che il testo che c'è davanti agli occhi non venga da una traduzione. Penso che la produzione finale dobbia ambientarsi tra una traduzione letterale e una traduzione letteraria : il tutto sarebbe in un lavoro equilibrato. La melodia nel senso sonoro tipo in una poesia, non so se possa davvero essere restituita (sappiamo tutti che è l'italiano la lingua musicale per eccellenza). Ad esempio, non so affatto - uno mi dovrà spiegare - come sarebbe possibile restituire la volontà dell'autore di approffitare del suono duro della sua lingua (tedesco o russo...) per renderlo in un'altra lingua (italiano). Penso subito alla paranomasia, cioé il gioco dei suoni se non sbaglio come c’è nella poesia L’onda di D’ANNUNZIO.
Però, direi che bisognasse una fedeltà all'autore perché altimenti il traduttore diventerebbe autore, prendendo il posto di colui che ha composto inanzitutto il testo. Rischerebbe di fare un’ipertraduzione e di non dare tutte le idee dell'autore.
In effetti, sarebbe peccato infine di fare una bella traduzione nel senso che sarebbe elegante, che però non avrebbe granché a vedere con il testo dell'autore. L'esercizio è scivolente e tutto consiste nell'equilibrare e nel moderare.
La ringrazio di tutti i dettagli, le consegne e le raccomandazioni che Lei trasmette ovunque.

Jacqueline Spaccini (Artemide Diana) ha detto...

Carissimo Julien (ma sei il "mio" Julien?),

quel che penso l'ho scritto qui (nell'altro blog):

http://inqualchepostonelmondoedentrodime.blogspot.com/2010/01/lettera-una-traduttrice-in-fieri.html

Julien ha detto...

grazie per il link !

La traduzione è un'arte !!!

(Sono il suo Julien in quanto faccio parte di un gruppo di circa quindici studenti a Caen... ma non vorrei dare troppi indizi per non essere scoperto) =)