sabato 8 novembre 2008

Salomè & le sue sorelle

 
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Salomè & le sue sorelle
di Jacqueline Spaccini

Anno Domini 29: “Erode aveva fatto arrestare e incatenare Giovanni in prigione a causa di Erodiade, moglie di Filippo, ch’egli aveva sposata e per la qual cosa Giovanni aveva detto: Non ti è permesso prendere in moglie la moglie di tuo fratello”. In conseguenza di ciò, Erodiade odiava Giovanni e desiderava che morisse. Ma non poteva raggiungere il suo scopo a causa del rispetto che Erode nutriva nei confronti di Giovanni (…). Finalmente, giunse l’occasione propizia: nel giorno del suo compleanno Erode diede un festino al quale invitò i suoi cortigiani, gli ufficiali e gli amministratori della Galilea. Entrata nella sala, la figlia di Erodiade danzò, incantando Erode e gli invitati. Il re disse alla fanciulla: Chiedimi quel che vuoi ed io te lo darò. E aggiunse con un giuramento: Foss’anche la metà del mio regno. Lei uscì e chiese alla madre: Che debbo chiedere? La madre le disse: La testa di Giovanni Battista. Rientrando, la giovane si affrettò a rivolgere al re la sua richiesta: Voglio in un catino, disse, ora e subito, la testa di Giovanni Battista. Il re si rattristò, ma a causa del giuramento fatto e della presenza degli ospiti, non volle rifiutargliela: inviò perciò una guardia con l’ordine di portare la testa di Giovanni. La guardia andò a decapitare Giovanni nella prigione e portò la di lui testa in un catino; la porse alla giovane che la diede a sua madre.” (Vangelo secondo san Marco,VI, 17-29). Questa figlia di Erodiade (e del suo primo marito, Erode Filippo), mai nominata dai Vangeli se non attraverso l’ascendenza materna, è Salomè. I motivi per i quali resta “innominata” vanno probabilmente ricercati nel significato del nome Salomè: “la pacificatrice”; l’esatto contrario, dunque, di quel che la tradizione tramanda al suo riguardo. La vicenda per la quale è passata nel mito è stata ulteriormente tramandata dallo storico Flavio Giuseppe nelle sue Antichità giudaiche: ma lì, Salomè non balla e il Battista non è decollato. In verità, l’episodio evangelico ha un celebre modello nella storia del governatore della Gallia Lucio Flaminio, che Cicerone, Tito Livio, Seneca e Plutarco hanno riferito, con alcune variazioni sul tema. La scena è la seguente: Flaminio, invaghitosi di una cortigiana che non aveva mai assistito ad una decollazione, decise di conquistarla facendo decapitare un condannato nel bel mezzo di un ricco festino. Alcune fonti aggiungono che, mentre il boia portava a tavola la testa recisa del condannato in questione, Flaminio e la cortigiana si abbandonassero a danze voluttuose… Colpito dalla folgore oratoria di Catone il Censore, Flaminio fu allontanato dal Senato. Questo accadeva nel 184 avanti Cristo. Archeologia storica a parte, Salomè, l’adolescente sulfurea che leggende letteratura e pittura hanno successivamente trasfigurato in mito, non sembrerebbe essere altro che l’inconsapevole strumento della vendetta della madre Erodiade, il cui legame incestuoso con il cognato (la legge proibiva categoricamente tali matrimoni) aveva subìto la fustigazione morale da parte del profeta Giovanni Battista. Erodiade sarebbe dunque la vera protagonista dell’episodio dei vangeli, l’ombra nera, la gran burattinaia a muovere i fili delle decisioni altrui, di Salomè tra l’altro, ragazzina seducente e maliziosa ma inequivocabilmente poco perspicace. Naturalmente, i Vangeli non dicono altro sul susseguirsi degli eventi; una domanda che in genere nessuno si pone è la seguente: che fine fece la Salomè storica? Quella a cui la maggior parte dei lettori è interessata, è invece: com’è nato il suo mito? Quanto alla sua vicenda terrena è presto detto: rimasta vedova alla morte dello zio-patrigno Erode Antipa, divenuto nel frattempo suo marito, Salomè sposerà il re dell’Armenia minore ove, madre di tre maschi, terminerà i suoi giorni di regina verso l’anno 72.
Di lei possediamo un ritratto autentico, l’unico, inciso sulla faccia di una moneta di Nicopolis, coniata sotto il suo regno. Invero, la storia di Salomè, posteriore alla decollazione del Battista, non è di grande aiuto nell’edificazione del suo monumento mitico, tenuto anche conto della gran quantità d’inchiostro che il suo personaggio ha fatto asciugare sulle carte letterarie e musicali o della profusione di tubetti di colore posti a strato sulle tele dei pittori… Sta di fatto che, dopo essere stata bollata come “strumento del demonio” dai Padri della Chiesa, dopo aver subìto la legge del contrappasso nelle leggende greche del IV secolo che la vedono perire tra i flutti, decapitata da ghiacci simili a coltelli, Salomè se ne sta muta e immobile a prendere la muffa del tempo. Alla stregua della madre Erodiade (lei per davvero un’autentica dark lady) esiliata da Caligola in quel di Lugdunum (l’odierna Lione), Salomè vive l’esilio del mito sospeso, o meglio, abbandonato: vale a dire un silenzio ferale. La femme fatale, nel suo significato proprio, non interessa l’era medievale; giusto un’apparizione nel XII secolo (la Légende dorée di Jacques de Voragine la fa inghiottire dalla terra), una comparsata nel XVI e XVIII secolo (ma solo perché Giovanni Battista ha diritto a un momento di revival nella tragedia teatrale germanica). Poi di nuovo l’oblio. Nel XIX secolo, Salomè torna in pompa magna e anzi, imperversa in tutte le arti. Il suo ritorno nel campo culturale coincide però con uno strano fenomeno: scrittori, musicisti e pittori cominciano a pasticciare con i nomi dei personaggi storici. Sicché Salomè e sua madre Erodiade finiranno col fondersi sempre più in un unico essere, per confondersi poi definitivamente l’una con l’altra. E’ anche il momento in cui si riscopre che Bernardino Luini, un bravo pittore del primo Cinquecento, aveva immortalato Salomè in un ritratto di charme: la chioma fulva e gli occhi verdi come smeraldi disegnano i tratti di un’adolescente inquietante, una rossa ferina il cui sguardo, che si vorrebbe virginale, è reso inesorabilmente equivoco dal Luini. Comincia altresì a farsi strada l’idea – perlomeno tra i letterati, i pittori aspetteranno un poco, i musicisti ancor più – che Salomè sia l’incarnazione mitica della donna nociva all’uomo. Per il momento, mi limito a adoperare questo termine improprio (nociva), abbastanza vago e banale, in ragione del fatto che le aggettivizzazioni, via via creditate a Salomè, sono talmente variegate e ricche di sfumature da non poter essere riassunte in un unico vocabolo pregnante. Si è detto il ritratto, le fattezze fisiche di Salomè. Grazie al Luini, una parte importante del corpo è già abbozzata; agli occhi verdi e ai capelli rossi, universalmente accettati, vi è ora da aggiungere l’abbigliamento. Trattandosi di una lussuriosa (tale doveva considerarsi una danzatrice di un presumibile ventre nell’Ottocento, oppure una contorsionista quale la descrivono i Misteri tedeschi di san Giovanni Battista), i suoi abiti debbono essere succinti e sfolgoranti. Ecco allora la nostra rediviva Salomè-Erodiade incedere tra gli uomini scortata da belve feroci in guisa di cagnolino, in tenuta similorientaleggiante, i seni e le cosce ignudi o quasi, generosamente offerti allo sguardo, lambiti dagli abiti d’oro ed esaltati dai diamanti tra i capelli. La paccottiglia, insomma. Salomè – scriverà Flaubert nel suo Hérodias (1877) – è une fleur que la tempête agite [un fiore che agita la tempesta]; ma la sua è una strana baccante che va in giro calzata di pantofoline di colibrì coi pantaloni da odalisca tutti gemmati di mandragora… Interessato alla coppia Erodiade-Erode, Silvio Pellico aveva immaginato, nella sua Erodiade (1833), una Salomè poco più che bimba; ma non è di bimbe incolpevoli che il mito intende nutrirsi. E poiché il mito di una donna ideale è tutto fuorché un omaggio alla donna (non parliamo poi della donna reale), poiché un mito è l’esaltazione di un carattere portato alla sua estremità, il mito di Salomè finirà per assumere nel corso del tempo due diverse connotazioni, a seconda che esso palesi il giudizio etico-estetico che gli uomini portano sulla donna oppure sulla femminilità alle sue estreme conseguenze. La seconda metà del XIX secolo, soprattutto francese e inglese, è pervasa di una prepotente misoginia, in una atmosfera di raffinata decadenza e di esasperato estetismo, cui la donna non ha diritto di partecipare. In questo clima, non solo la figura femminile è ancillare, ma addirittura negativa se l’uomo cui si attacca è un artista. La belle noiseuse ideale che spingerà al suicidio il Frenhofer di Balzac e la modella Manette Salomon che disperderà il talento artistico del Coriolis goncourtiano, sono sorelle di Salomè nel loro agire. In A rebours (1884), Huysman fa della principessa giudaica la mostruosa “dea dell’immortale Isteria”, in simultanea con le osservazioni freudiane. A dare una svolta al mito è però Oscar Wilde: nel 1897 la sua Salomè è una creatura innamorata del Battista, ribattezzato Jokanaan, splendidamente (si fa per dire) riassunta dal bacio necrofilo che ella suggella sulle labbra appartenenti alla testa mozza del profeta (Wilde plagia Heine). Perché è così distruttiva? Se distrugge l’essere amato è a cagione della sterilità del suo desiderio non corrisposto. E’ questa un’idea base in Wilde: chi ama finisce per soffocare l’essere amato. La pièce del dandy inglese si preoccupa altresì di rincarare le dosi dell’ingrediente sensuale: prova ne è che egli scrive quest’opera in francese, lingua che l’Inghilterra vittoriana considerava propria dei romanzi licenziosi. La lascivia entra a far parte del personaggio-mito di Salomè: il carattere sensuale ma insieme ieratico dei quadri di Gustave Moreau (Salomé dansant devant Hérode e L’Apparition, 1876), così come lo sguardo minerale della vergine di Mallarmé (Hérodiade, incompiuto) che il poeta assimila al cigno, vengono spazzati via : cedono il passo ad una femmina “anguilla”, le cui pose lascive verranno impresse sulla pellicola filmica (Salomè,1922) da Alla Nazimova, diva del cinema muto di Charles Bryant.
Della definitiva sua trasformazione in ninfomane assetata di sangue, la musica di Richard Strauss è corresponsabile. La sua Salomè (opera del 1905, basata sulla tragedia wildiana), è un’eroina tutta impulso, sensi e capricci. Scompare definitivamente ogni forma, pur minima, di idealità in lei: Salomè ama il Battista? Non è il profeta che ammira in lui, bensì il maschio; tant’è che arriva a confessargli: Ich bin verliebt in deinen Leib (letteralmente: “sono innamorata del tuo corpo”, benché la parola Leib esprima anche un’ambiguità sessuale di tipo metonimico). E’ diventata una puttana volubile e sanguinaria, un animale predatore, come già nel 1870, Henri Régnault aveva dipinto la sua Salomé gitana, il cui sorriso rimanda a Carmen, la sigaraia, la bohémienne nata per essere il tormento degli uomini.
Vano e tardivo sarà il tentativo di Apollinaire e di Picasso di demitizzare, ironicamente, l’idea-ossessione della donna generatrice di guai, sposa di Satana e madre di Sifilide, secondo il Liebeskonsil (1895) di Oscar Panizza e non solo (si pensi ad Eva e a Pandora). Nell’immaginario maschile, la donna reale non esiste; in esso trova forma una figura ideale (non per niente Pigmalione è un uomo), duplice e dicotomica, della donna. Da una parte, sta l’angelo virtuoso, pilastro della famiglia, che fa dell’onestà, della cura del marito e dei figli, lo scopo della sua vita, come Andromaca; iperidealizzata, come la Beatrice dei Preraffaeliti; ardente e pudica, come la Pamina mozartiana; innamorata e incolpevole, come Desdemona ed Ester; ingenua e aggraziata, come la Biancaneve di Walt Disney. Dall’altra parte, si muove la tentatrice, irresistibilmente provocante nella sua libertà, ma insieme assolutamente inaccessibile e inarrivabile, quella che fa perdere la testa agli uomini, come Salomè (e, per altri versi, Giuditta); quella che dispone dell’uomo come di un oggetto privandolo della sua dignità, come Circe e la Viviana del mago Merlino; quella che lo spinge all’inganno, alla violenza e al tradimento, come Lady Macbeth, Carmen e Mata Hari. Questa seconda donna, quando si fa eccessivamente pericolosa agli occhi dell’uomo, si trasforma velocemente in una strega, il suo principale atout, la bellezza, si trasforma in sembiante meduseo: ecco Medea, la Regina della Notte e Crimilde, sorelle delle Parche, le Erinni e le Furie.

Per non parlare poi di certe figure femminili “a metà”, come Elena, Fedra, Cleopatra e Didone,
belle, incantatrici ma perdenti, degne del purgatorio, o come Antigone, Brunilde e Giovanna d’Arco, figure queste troppo virili, atroci vergini “falliche”, inclassificabili, e dunque buone per la zona “limbo”.
In alto, resta la donna perfetta, la Madre, che va respinta dall’uomo che non voglia essere accusato di amore incestuoso; in medias res, la moglie, che mantiene lo standard di una banale quietitudine. Altrove, giù negli inferi, non c’è scampo: la donna fatale è una femmina che castra, grande spettro della virilità maschile, ancora memore dello strazio di Atteone, dilaniato dai suoi stessi cani per aver sorpreso nella sua nudità Artemide Diana, dea inconoscibile per eccellenza, mitologica vendicatrice di Salomè e delle sue sventurate sorelle. Intanto, le scrittrici continuano a disinteressarsi di Salomè, persuase che gli uomini non capiranno mai nulla delle donne, fintantoché continueranno a costruire attorno alla sua specifica realtà un mito maschile, come quello di Salomè, assolutamente fasullo.


Jacqueline Spaccini
Parigi, feb. 2001


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Pubblicato da Stilos (supplemento letterario de "La Sicilia"), con il titolo Il mito di Salomé: anche la donna di Satana ha un'anima. 20/02/2001, p. 9


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