giovedì 23 aprile 2009

Vita di Vittorio Alfieri da Asti scritta da esso

Vita di Vittorio Alfieri da Asti scritta da esso


Parte prima

INTRODUZIONE



Plerique suam ipsi vitam narrare, fiduciam

potius morum, quam arrogantiam, arbitrati sunt.

Tacito, Vita di Agricola




Il parlare, e molto piú lo scrivere di sé stesso, nasce senza alcun dubbio dal molto amor di sé stesso. Io dunque non voglio a questa mia Vita far precedere né deboli scuse, né false o illusorie ragioni, le quali non mi verrebbero a ogni modo punto credute da altri; e della mia futura veracità in questo mio scritto assai mal saggio darebbero. Io perciò ingenuamente confesso, che allo stendere la mia propria vita inducevami, misto forse ad alcune altre ragioni, ma vie piú gagliardo d'ogni altra, l'amore di me medesimo: quel dono cioè, che la natura in maggiore o minor dose concede agli uomini tutti, ed in soverchia dose agli scrittori, principalissimamente poi ai poeti, od a quelli che tali si tengono. Ed è questo dono una preziosissima cosa; poiché da esso ogni alto operare dell'uomo proviene, allor quando all'amor di sé stesso congiunge una ragionata cognizione dei propri suoi mezzi, ed un illuminato trasporto pel vero ed bello, che non son se non uno.



Pianta effimera noi, cos'è il vivente?
Cos'è l'estinto?
Un sogno d'ombra è l'uomo.
Pindaro, Pizia VII, v. 135







venerdì 10 aprile 2009

Lo sai: debbo riperderti e non posso


Lo sai: debbo riperderti e non posso.

Come un tiro aggiustato mi sommuove
ogni opera, ogni grido e anche lo spiro
salino che straripa
dai moli e fa l'oscura primavera
di Sottoripa.

Paese di ferrame e alberature
a selva nella polvere del vespro.
Un ronzìo lungo viene dall'aperto,
strazia com'unghia i vetri. Cerco il segno
smarrito, il pegno solo ch'ebbi in grazia
da te.
E l'inferno è certo.


(Eugenio Montale, Le occasioni)

giovedì 9 aprile 2009

Fingo, Dipingo e Scrivo


Fingo, dipingo e scrivo

di Jacqueline Spaccini

La domanda di partenza è: che ci stanno a fare quadri e pittori in un testo letterario?
Mettiamo un limite, del tutto arbitrario, una data spartiacque, fittizia, scelta in base ad una nostra soggettivissima comodità: 1979.
È l'anno in cui Georges Perec pubblica Un cabinet d'amateur, histoire d'un tableau per le edizioni Balland. Libro minuscolo (nemmeno un centinaio di pagine), avente per oggetto la strana vicenda di un cabinet d'amateur, appunto, una tela che "rappresenta una stanza rettangolare, senza porte né finestre apparenti, i cui muri visibili sono interamente ricoperti di quadri"; oltre cento, nel caso specifico.

E quel genio di Perec ne fa rivivere le peripezie, anima il suo autore, tale Heinrich Kurz, americano di origine tedesca, descrive con perizia maniacale[1], i quadri ivi riprodotti: "n. 73: Charles M. Murphy che cerca di battere il record del miglio il 30 giugno 1899, di Bernie Bickford". Del quale riporta i tratti salienti della vita, come quando, trentenne, sul piroscafo verso gli Stati Uniti, Bickford fa la conoscenza "di un noto gangster, Michelangelo Merisi".

Non è un gioco difficile da scoprire questo, abbiamo fornito un esempio di pressoché automatico rihiamo di fonti (almeno per un italiano): Merisi... Questo è appunto il gioco di Perec, che così scriverà nell'ultima pagina: "La maggior parte dei quadri (descritti, n.d.r.) è falsa come falsa è la maggior parte dei dettagli di questo racconto fittizio, concepito per il solo piacere, e il solo brivido, di fare come se"...

Cos'è dunque questo - in fondo, immenso - desiderio di ingannare il lettore, prendendo in prestito lessico e sintassi propri della critica d'arte null'altro che per farlo cadere in un tranello? E il divertimento, consiste forse nel rivaleggiare con la critica, e anzi di batterla, giacché si lavora sulla pura finzione, come il Murphy di B. Bickford?

I quadri, inedite potenzialità narrative, sembrano avere una funzione di avvio di marcia, di embrayage, spazio organizzato in cui organizzare nuovi spazi, che essi siano falsi alla partenza, poco importa: per Perec la realtà è una semplice questione di esperienza personale, come per il pittore - divenuto a sua volta personaggio di un romanzo di Giovanni Orelli (Il sogno di Walacek, Einaudi, 1991) - Paul Klee. Il quale così argomentava, nei suoi scritti teorici: "Un'opera d'arte può falsificare la realtà per coglierne più profondamente l'essenza. In tal caso, la menzogna è solo una verità fuori posto".

Anche alla finzione si può dare un posto sbagliato: perché, per esempio, attribuirle il peggiorativo semantico (ma più spesso morale), che solo l'italiano accoglie?
Come mai non viene concesso alla finzione di rappresentare una realtà che essa stessa costruisce e perché non prestarla all'area della magia oppure a quella più umana del sogno? [2]

È quel che fa Sergej Roić, ticinese di origine croata, nel suo Innumerevoli uomini (Giampiero Casagrande editore, 1991). Non a caso il titolo rivela - e rivendica per così dire - ascendenze borgesiane.
I protagonisti dei suoi racconti sono Jan Vermeer, El Greco, ma anche Han Van Meegeren, il falsario più famoso noto solo perché fu lui stesso ad autodenciarsi come tale e a fornire quelle prove di inautenticità di cui i critici più prestigiosi non s'erano minimamente accorti. Ma i protagonisti sono tali o non è tutto un sogno? Il sogno di colui che scrive e si confonde e poi si ritrova: "Rifletterei che ogni cosa, a ognuno accade precisamente, e precisamente ora. Secoli e secoli, e solo nel presente accadono i fatti; innumerevoli uomini nell'aria, sulla terra o sul mare, e tutto ciò che realmente accade, accade a me", scriveva Borges nelle sue Finzioni.

A dire il vero, il termine conosce un grande consenso se tradotto in inglese, fiction. Fino ad alcuni anni fa, si accompagnava "naturalmente" a science (science-fiction), vale a dire fantascienza.
Ma oggi tutto è fiction, anche e soprattutto, il romanzo a intrigo (giallo o noir che dir si voglia). Pittura e delitto, per esempio [3]: chi scopre il mistero legato alla Partita a scacchi - un celebre quadro di Pieter Van Huys - scopre l'assassino. È in sintesi il tema proposto dallo spagnolo Arturo Perez-Reverte ne La Tavola fiamminga (Bompiani noir, 1994. Venne girato un film Uncovered, tratto da questo romanzo. Stendo, per soprassalto di bontà, un velo pietoso).

Esistono oppure no, Van Huys e il suo quadro? Non intendo di certo rivelarlo qui; quel che fa il peso specifico della storia è la presenza dell'elemento pittorico apparentemente lontanissimo da meccanismi siffatti, come pretesto iniziale di un thriller anomalo (non mi si citi La Nona porta di Polanski: altro romanzo, Il Club Dumas, di Perez-Reverte adatto a film).

Nell'Elogio della matrigna (Rizzoli, 1990), Mario Vargas Llosa ricorre a quadri e autori conosciuti, come il tabuizzato Candaule (re della Lidia marchiato come voyeur sado-masochista dalla psicoanalisi moderna) di Jordaens.

Una riproduzione della tela precede il racconto vero e proprio, e mostra le straripanti terga della regina, la quale ignora di essere oggetto dello sguardo compiaciuto del marito e di quello eccitato di Gige, guardiasigilli del re. Vargas Llosa parte dalla descrizione oggettiva di un dipinto, ma poi se ne allontana: rileggendolo, lo ri-dipinge; ne riscrive la storia, la ri-crea. Il romanzo erotico che narra i sentimenti di Lucrezia per suo marito e il di lui figlioletto risulta essere sorretto dalla storia dei quadri presenti nella stanza del sesso, cioè dalle storie che essi raccontano, e ne costituiscono per così dire il ponteggio mobile.


Di Duccio di Boninsegna si sa poco, come pure di Pisanello. Ci voleva la maestria di Eduardo Rebulla (tra le altre cose, medico e critico d'arte) per restituirci i loro dubbi, gli amori e i pensieri (Carte celesti, 1990 e Linea di terra, 1992, entrambi Sellerio).

Pittore protagonista è anche Fabrizio Clerici [4] ne Le pietre volanti (Rizzoli, 1992) di Luigi Malerba, il quale paga subito il suo debito: "questo libro è nato davanti a un quadro di Fabrizio Clerici...", rimanendo poi libero di lavorare senza assilli di autenticità o di verosimiglianza (per quanto).

Un'ultima sosta la faccio in un testo che sembra racchiudere tutti i precedenti, se non altro da un punto di vista spaziale. Mi riferisco a un racconto di Daniele Del Giudice, Nel museo di Reims (Mondadori, 1988, esaurito da anni): ambientato nel museo suddetto, va letto come metafora del labirinto e dell'istituzionalità. In esso, si incontrano quadri che esistono e altri no, quadri che assecondano l'amore (Barnaba e Anne, i due protagonisti), quadri descritti e che descrivono, che si raccontano accanto ad altri quadri che rimangono mistero...

Menzogna e realtà: ruoli e funzioni? Che importa, giacché "si può mentire non mentendo", dice il narratore delgiudiciano, ma - aggiungo io - mentendo si può non mentire. [Jacqueline Spaccini]

Pubblicato da Avvenimenti il 14.02.1999




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[1] Alla medesima operazione pare ispirarsi Alessandro Baricco: "24, Oceano mare, olio su tela, cm. 71,6 x 38,4 Coll. Bartleboom. Descrizione: Completamente bianco. È l'ultima opera realizzata durante ilsoggiorno alla locanda Almayer, località Quartel..." (da Oceano mare, Rizzoli, 1993)

[2] Si veda a questo proposito la raccolta di novelle di Paola Capriolo, La grande Eulalia (Feltrinelli, 1988), la cui atmosfera è quella della fiaba medievale o della realtà inesplicabile in quanto assurda e in cui i protagonisti possono solo accettare gli eventi o rifiutarli, senza possibilità di intervento.

[3] Procedimento simile ma più delicato, più sottile, ritroviamo in L'avvocata delel vertigini (Adelphi, 1994) di Piero Meldini. Qui abbiamo un vescovo, un bibliotecario, dei manoscritti; una beata, un quadro e, naturalmente, un delitto da risolvere. Cfr. anche Emilio Tadini, L'Opera (Einaudi, 1982): qui è il pittore a essere assassinato.

[4] Nel suo Retablo (Mondadori, 1992), Vincenzo Consolo rende omaggio al celebre artista prendendone a prestito il nome e il carattere per il suo Fabrizio Clerici, immaginario artista lombardo amico degli Illuministi nonché protagonista del romanzo. A Sciascia, Clerici ispirerà la trama di Todo modo. (Einaudi, 1974).



Daphne Du Maurier, per cinefili e non solo

Daphne Du Maurier
Non voltarti - Gli uccelli - L'Alibi. Palermo, Sellerio editore (coll. La memoria), 1998.
Traduzione di Marina Vaggi.

Daphne Du Maurier, per cinefili e non solo
di Jacqueline Spaccini



Per quanto il cognome riveli antiche ascendenze francesi, Daphne Du Maurier è una scrittrice britannica d.o.c., che ha attraversato il XX secolo (Londra, 1907-1989), regalandoci romanzi e racconti pieni di suspense, senza servirsi di rocamoleschi escamotage.

Tant'è che Hitchcock (e non solo lui) vi ha attinto a piene mani: Rebecca la prima moglie, Gli uccelli, ecc. Altra nota pellicola cinematografica è per fare un esempio, A Venezia... un dicembre rosso shocking (Roeg). Tutto chiaro a questo punto per quei cinefili che abbiano superato almeno i trentacinque anni. Per gli altri, oltre al consiglio di procurarsi i film succitati (che hanno però il limite di apportare inutili modifiche al contenuto narrativo della Du Maurier), suggerisco di leggersi questi tre libriccini che presentano in tutto sei racconti.


Tempo di lettura: un'ora, un'ora e mezza ciascuno.
Dico questo perché una volta iniziata, sarà molto difficile abbandonare la lettura. Du Maurier, infatti, sa catturare l'attenzione del lettore utilizzando una sintassi molto semplice, quasi minima, presenta personaggi autentici; alla base d'ogni racconto pone un'idea forte che non si perde, anzi, si rafforza pagina dopo pagina.


Eccellente - forse - su tutti, Le lenti azzurre, che oggi (in virtù degli effetti speciali) sarebbe facilissimo adattare a film[1]: a causa di un paio di lenti che premono su un nervo ottico inutilizzato, Marda West vede come realmente sono le persone accanto a lei: donnole, cinghiali, pesci, ma soprattutto serpenti e avvoltoi.

Un racconto un po' moralista e un po' angosciante, ma c'è da chiedersi se un'occasione del genere (almeno per un giorno!) non determinerebbe una svolta nei nostri rapporti con gli altri.
Un dubbio: noi, chi saremmo, daini o pantere, rospi o gattini? [Jacqueline Spaccini]

pubblicato da Avvenimenti il 14.01.1998
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[1] Magari è stato fatto; l'articolo risale a undici anni fa.

sabato 4 aprile 2009

Giorgio De Chirico - La fabbrica dei sogni (mostra)


Giorgio De Chirico. La fabrique des rêves [La fabbrica dei sogni]
Exposition au Musée d'Art Moderne de la Ville de Paris.

13.02– 24.05 2009


Comincerò da quella frase finale che può leggersi affissa al muro, uscendo dalla mostra:

La vie ne serait-elle qu'un immense mensonge ? Ne serait-elle que l'ombre d'un rêve fuyant ? Ne serait-elle que l'écho des coups mystérieux frappés là-bas contre les rochers de la montagne dont personne paraît-il n'a vu le versant opposé ? (1).

Se si tiene a mente quest'interrogazione, questo dubbio, allora cadranno le remore che in genere si accompagnano alla travolgente esibizione della carismatica consapevolezza che De Chirico non risparmiava di sfoggiare nelle sue tele.

Non posso dimenticare un'altra frase del pittore che lo avvicina al "mio" Bontempelli:

Voilà ce que sera l'artiste de l'avenir : quelqu'un qui renonce tous les jours à quelque chose ; dont la personnalité devient tous les jours plus pure et plus innocente (2).

Dico: vicino a Bontempelli, con il quale condivise il periodo iniziale del Realismo Magico, all'epoca in cui l'autore comasco si ergeva a suo difensore, soprattutto dopo il giudizio sprezzante di Roberto Longhi che aveva scritto una recensione - una vera stroncatura - sulle pagine del Tempo nel 1919, dal titolo Al dio ortopedico. Poi i rapporti si erano guastati tra loro, soprattutto nel '42 quando il Pictor optimus aveva deciso che tutta l'arte moderna fosse decadente. Malgrado il rappel di Bontempelli che lo consiglierà di farsi guardingo nelle affermazioni e di preferire l'anonimato, De Chirico conserverà l'idea di essere onnipresente nelle sue tele e autarchico nel panorama artistico forse per colmare il silenzio mulinante dentro di sé.

Eppure, nonostante De Chirico privilegi Böcklin, Courbet e il non più noto, romantico, Piccio - contro i Primitivi amati da Bontempelli, pure - dicevo - questa mostra così immensa che ho ammirato oggi restituisce lembi di quei pittori del Quattrocento (penso a Masaccio, a Piero della Francesca, a Paolo Uccello) che sfuggono dal pennello del pittore, neanche troppo inconsapevolmente. Forse proprio in nome di quella purezza e di quell'innocenza, di quel venir meno (che non esisterà in lui) proprio di quei lontani progenitori pittorici.
C'è tutto Böcklin qui:

a sinistra A. Böcklin, a destra G. De Chirico
e anche nell'Ulisse (autoritratto), ma si pensi a Combat de centaures (1909), in cui riecheggia di certo la Battaglia dello svizzero, ma come non vederci anche Paolo Uccello e un delirante (se mai lo fosse stato) Pisanello (io ci vedo anche Delacroix che riprende Géricault, a dire il vero)?

E che dire di Roger et Angélique, ove la moglie Isa è l'Angelica ariostesca e Roger somiglia piuttosto a un noto San Giorgio - nonché identico - uccisore di draghi?

Per me, che vengo dall'Italia, le piazze, i luoghi solatii, le malinconie pomeridiane e gli enigmi dechirichiani mi escono fuori dalla pelle perché sono dentro di me, ricordano cose familiari, complice senza dubbio l'architettura razionalista che tanto attingerà alla sua pittura.
Per cui questi quadri mi ricordano - anacronisticamente - le città fasciste di Sabaudia, Aprilia, Pontinia, Pomezia, Latina (per me solo luoghi di vacanza, luoghi vissuti attraverso gli occhi della giovinezza paterna).
Anche se dentro - nei quadri, intendo - magari c'è Ferrara, il nulla o il museo di Monaco di Baviera.
E poi mi ricordano anche il Tempio di Vesta, la chiesa di S. Donato a Zadar, la tomba di Cecilia Metella.
Ne metto un po' di seguito:
1.

2. 3.

4.
5. Di sé diceva che gli altri erano invidiosi soprattutto per l'eccezionale qualità della [s]ua pittura; altri lo disprezzavano per quei pupi metafisici, per i convitati di pietra.
Nessuno potrà negare che è stato unico (Carrà ne sa ben qualcosa) e inimitabile.

Ma ha ancora senso cercare di trovare un senso nelle sue tele? E se la vita non foss'altro che un'immensa menzogna...?

Io mi godo i suoi quadri, metto da parte quelli chiassosi che detesto (uno su tutti, quel Capriccio à la manière de Véronèse. Povero Caliari!); metto in conto le repliche; riconosco l'eccellenza della paletta cromatica; amo la sua geometria urbanistica e mi sento un po' come quell'Ulisse di ritorno, marinaio remigante nella stanzetta della mente ché nemmeno più un labirinto è.


Mi fermo qui. Come dice una canzoncina pop, è arrivato il tempo di lasciare spazio a chi dice che di spazio e tempo non ne ho dato mai. [Jacqueline Spaccini, Paris le 4 avril 2009]


N.B. Agli appassionati detrattori del pittore e della mostra, consiglio la lettura di questo articolo che è dalla loro parte (clicca qui).
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(1) E se la vita non foss'altro che un'immensa menzogna? L'ombra d'un sogno fuggevole? E se fosse solo l'eco di colpi misteriosi che s'infrangono contro le pareti della montagna di cui nessuno pare abbia visto il versante opposto? [manuscrit archives fondation G. et I. De Chirico].
(2) Ecco come sarà l'artista del futuro: uno che rinuncia ogni giorno a qualcosa, la cui personalità diventa ogni giorno più pura e innocente [manuscrit Xb].

giovedì 2 aprile 2009

Léo Ferré ou le mal de vivre


di Jacqueline Spaccini



Léo Ferré. Il cantore dell'immaginario (a cura di Mauro Macario). Eleuthera, 1994.
Le canzoni sono state tradotte da E. Medail; il saggio L'Anarchia da G. Gennari.


Chi ricorda che Léo Ferré, il poeta cantante, è morto nel 193 a Castellina in Chianti, dove viveva da venticinque anni?
Qualcuno sa che aveva scritto - tra l'altro - un saggio , sorta di elogio dell'anarchia?
Manco a dirlo, per il pubblico italiano più colto (e più attempato) Ferré è quello di Avec le temps (Dalida aveva restituito il testo in italiano con il titolo Col tempo va... Qui la versione di Patti Pravo).
Una canzone struggente per il testo e la melodia - Ferré era convinto assertore dell'assoluta complementarità delle due parti -; una condanna per chi, come lui, ha un patrimonio di "cinquecento canzoni, cinquanta album, due opere, una sinfonia, un oratorio lirico, un romanzo, tre libri di poesia" (p. 10).
Mauro Macario - che è poeta oltre che regista - ha voluto mostrarci l'anima politica di un Ferré di certo meno noto, meno rassicurante, ma più provocatorio: sedici canzoni/poesie e un piccolo saggio, L'anarchia.
C'è da chiedersi se oggi gli anarchici esistano ancora: la risposta del poeta è netta:

Y'en a un sur cent et pourtant ils existent
La plupart Espagnols allez savoir pourquoi
Faut croire qu'en Espagne on ne les comprend pas
Les anarchistes
(...)
Ils ont le coeur devant
Et leurs rêves au mitan
Et puis l’âme toute rongée
Par des foutues idées[1].

È poesia gridata, questa: non riscalda il cuore, non va letta in poltrona con la coperta a scaldare le ginocchia. Purtroppo il traduttore ha scelto di servircela con una camomilla. A parte infatti ogni considerazione sull'interpretazione generale della canzone in questione (Les Anarchistes), mi chiedo se abbia senso sacrificare in nome della rima corrose/favolose, la forza e la rabbia, il disincanto e la tenerazza di rongée [= rosa, nel senso di smangiucchiata] e di foutues [= fottute].
Nella seconda parte di questo piccolo testo, troviamo il Ferré anarchico. Per lui, questo è l'unico modo possibile all'uomo per essere tale.
Disperazione e rabbia sono le uniche compagne di viaggio nello sconfinato deserto che è la vita; malinconia s'aggira mesta nei dintorni, sulla speranza è stata issata bandiera a mezz'asta.
"La mia disperazione è una disperazione chimica. Muoio di morire ad ogni istante. Non ho salvezza che nel rifiuto - un inganno di più ma terribilmente sovrattivante" (p. 98).


pubblicato da Avvenimenti il 17.01.1996


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[1] Non son [che] l'un per cento ma credetemi esistono/In gran parte spagnolo chi lo sa mai perché/Penseresti che in Spagna proprio non li capiscano/Sono gli anarchici/ (...)/Hanno chiuso nel petto/Un sogno disperato/E le anime corrose/Da idee favolose (p. 31). Trad. di E. Medail.